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Una formica nera in una notte nera

Perché nello stesso quinquennio in cui si decide della gestione del potere in una piccola città di provincia del Sud, alle sconfitte degli esponenti dell’aristocrazia del luogo, appartenenti alle famiglie che da secoli detengono il potere, si succedono con implacabile contemporaneità lutti tragici e terribili che colpiscono quelle stesse famiglie?
Questa la domanda che per mezzo secolo è rimbalzata nella testa di Saverio Terranova storico e storico dell’economia. A distanza di tempo, ecco l’idea di raccontare quel periodo e quei fatti. L’idea di cimentarsi come narratore – questo è il suo primo romanzo – provando a raccontare, tra il vero e il verosimile, attraverso il canone del romanzo storico, la storia dell’amministrazione del potere in una città di provincia, Modica, dove il tramonto delle storiche classi dominanti è sancito da un ineluttabile e tragico destino che si accanisce contro due bellissimi giovani che, al tempo, stavano vivendo la loro stagione più bella di amore e giovinezza.

– Una formica nera su di un sasso nero in una notte nera, Dio la vede – Così recita un proverbio arabo. Così il papà di Milena si rivolge alla figlia condannata a un tragico epilogo per colpa di una malattia incurabile.

La morte di Milena sconvolge la cittadina di Modica dove un giovane modicano proveniente da una famiglia umile, che grazie a una borsa di studio si laurea alla Cattolica a Milano, sta per imporsi sulla scena politica locale – diventerà Sindaco – facendosi interprete dei bisogni delle classi meno abbienti, quelle che anche toponomasticamente stavano distanti dalle classi che per sette secoli avevano detenuto il potere. Le prime vivevano a Modica Sorda, le seconde a Modica Bassa.
Il giovane ha 30 anni, è imbevuto degli ideali della sinistra democristiana (Dossetti, La Pira, Fanfani) e la sua storia, a maggior ragione oggi, pare una storia di rottamazione ante litteram. A maggior ragione, oggi, perché le lotte che si consumarono per la scelta dei candidati all’ARS, e al Parlamento Nazionale tra i rappresentanti dell’aristocrazia e della nuova borghesia arrivista, si consumarono all’interno dello stesso partito: La Democrazia Cristiana.

I capitoli si succedono raccontando la storia di un quinquennio nel parallelismo tra la vicenda privata e intima dei due giovani protagonisti e la vicenda politica. Il quadro che ne viene fuori, in un non sempre felice raccordo tra storia e narrazione, permette di riflettere su come quel territorio sia stato, da sempre, afflitto dalla mancanza di visione. Dove la tragedia privata, che non può avere alcun rapporto di casualità con l’evolversi della vicenda politica, diventa nella sua tragicità la trasfigurazione della tragedia sociale e territoriale di una terra da sempre condizionata dall’incapacità di fare sistema e che finisce, pare, col distruggere la felicità dell’uomo impedendo, persino, il realizzarsi dell’amore.
Dove le lotte e le divisioni, sovraccaricate da una passione che viene da lontano sull’onda lunga della storia, ed efficacemente riassunta nell’immagine del torrione dei Conti di Modica che fa da copertina al libro, si svolgono all’interno di un bicchiere d’acqua. Il potere di una cittadina di provincia. Di appena cinquantamila abitanti che, mentre il resto dell’Italia conosce la sua primavera, quella del boom economico, è ancora alle prese con un’agricoltura arretrata e con una mentalità votata al sussidio e al clientelismo. Dove la visione del giovane Sindaco, che pure tenta strenuamente di imprimere una cambiamento, rimane invischiata e vinta da un’inerzia tentacolare. Cento viddani e cento trattori. Lo sviluppo costiero, liofilizzato nella speculazione edilizia, incapace di diventare sistema di sviluppo.

L’epilogo sembra parlare al presente. Saverio Terranova, Franco Trani nel libro, il giovane laureato alla Cattolica per l’appunto, ha appena vinto le elezioni ed è diventato Sindaco, ma la vittoria lo ha reso triste e preoccupato. Lo preoccupano molte di quelle preferenze frutto dell’alleanza di cappelli e berretti, le preferenze di quanti non erano né amici, né nemici. Che non lo odiavano e che erano divenuti suoi alleati perché in quel preciso momento il suo era il carro del vincitore. Erano le preferenze di quelli che oggi chiamiamo moderati. Uno straordinario bacino di elettori che rappresentano, questo l’autore non lo dice, la più grande forza di conservazione di questo paese. E pertanto la sua naturale disgrazia.
A quali richieste avrebbe dovuto fare fronte? Come avrebbe conciliato i suoi ideali cristiani con le istanze del PCI?
Si sentiva usato, si sentiva strumentalizzato. L’uomo giusto per testimoniare, solo apparentemente, un cambiamento che nessuno voleva realmente.

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