Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

La finanza alternativa c’è già. In Islam

Quelli che auspicano una finanza alternativa dovrebbero impiegare un po’ di tempo a leggere qualcosina sulla finanza islamica. Io ogni tanto mi ci avventuro perché noto la crescente attenzione nei confronti di questo modello di organizzazione che, al di là del sostrato religioso che sussume, si differenzia in maniera determinante dal nostro.

Nella finanza islamica, infatti, l’attenzione è concentrata sulla relazione fra debitore e creditore. La sottolinea in ogni passaggio e la mette in rilevo, collegando ad essa, ad esempio, il principio della condivisione del rischio, e quindi dei profitti o delle perdite, degli investimenti.

Al contrario, noi abbiamo lavorato nel corso degli anni per allentare sempre più, fino ad annullarla, questa relazione. Cos’altro è il modello originate-to-distribute?

Noi occidentali abbiamo cercato in tutti i modi di eliminare il rischio insito nella relazione debitore-creditore, impacchettandolo in strumenti derivati smerciati all’ingrosso, per provare a dimenticare quella che è la realtà: ossia che il credito è rischioso.

Un tenue travestimento, peraltro molto remunerativo per chi lo mette in opera, della paura che tale rischio comporta.

Al contrario, i finanzieri islamici tengono talmente presente la realtà della relazione fra debitore e creditore che ne hanno fatto il pilastro portante dei loro strumenti finanziari.

Vi sembrerà filosofia. Ma il pensiero sta a monte della tecnica economica e la determina.

Per rendersene conto basta leggere il discorso di Zeti Akhtar Aziz, governatore della Banca centrale malese, tenuto a Jedda lo scorso 27 novembre, intitolato“Islamic finance –financial stability, economic growth and development”.

Capirete, leggendolo, che la filosofia intrinseca nella finanza islamica ha condotto questi paesi a costruire un sistema che, di anno in anno, si propone sempre più come interlocutore del sistema finanziario globale, arrivando persino a delineare una soluzione al dilemma fra squilibrio e depressione che affligge le nostre economie.

E’ proprio questo dilemma che il banchiere malese affronta all’inizio del suo intervento. “Cinque anni dopo la crisi – osserva – la sfida più pressante dell’economia globale è su come assicurare la stabilità finanziaria e insieme generare crescita e sviluppo”. Sono state fatti progressi sul versante della regolazione, spiega, ma la crescita stenta ancora a ripartire.

Ma ci sono alcune lezioni che la crisi dovrebbe avere insegnato.

La prima è che “l’espansione esponenziale dei sistemi finanziari non è commisurata a quella dell’attività economica. C’è una profonda disconnessione fra il settore finanziario e il suo ruolo di servire all’economia. La deregolamentazione ha aperto nuove opportunità alle istituzioni finanziarie, ma il link con le attività economiche è rimasto debole”. Per giunta “un prolungato periodo di tassi bassi in un ambiente di bassa inflazione può far assumere grandi rischi e contribuire a crescite significative degli squilibri finanziari”.

Insomma: stiamo ricreando le condizioni per il default prossimo venturo.

La seconda constatazione è che il ruolo dell’indebitamento è stato determinante per l’esplosione della crisi. “Alcuni report calcolano nel 300% del Pil il livello di debito delle economie avanzate”. E “le misure eccezionali e straordinarie intraprese dalle banche centrali fanno crescere le distorsioni nei mercati e hanno un costo per i risparmiatori, tanto più elevato quanto più rimarranno in campo”.

A fronte di questa situazione, la finanza islamica si propone innanzitutto di riancorare la finanza all’economia reale, al fine di creare un ambiente finanziario sostenibile e insieme le condizioni per una crescita equilibrata.

Ed ecco che il principio della condivisione del rischio fa capolino. “Uno dei requisiti della finanza islamica è che la transazioni devono supportare una genuina attività economica. Inoltre è un regime finanziario che mette l’enfasi sulla condivisione del rischio e questo rinforza il legame con l’economia reale”.

Il principio della condivisione del rischio non è nuovo, sottolinea, citando il caso del venture capital. Il principio della finanza islamica è lo stesso: l’investitore viene remunerato sulla base dei profitti che riesce a realizzare l’mpresa, o subisce una perdita se tali profitti non arrivano. “Questo principio – sottolinea – riduce il rischio di fare troppo affidamento sul finanziamento del debito, evitando insieme il debito eccessivo e la speculazione”.

“I contratti fra il finanziatore e l’imprenditore – spiega – mettono grande enfasi sulla creazione di valore e la capacità di creare profitto dell’impresa”, in tal modo si crea un link stretto fra finanza ed economia dove la prima non può (e non deve) crescere più della seconda.

Il principio della condivisione del rischio obbiga i prestatori a effetturare al contempo assennate due diligence prima di concedere credito, visto che non è possibile cartolarizzarlo e spedirlo altrove, “in modo da assicurare che i profitti siano commisurati con i rischi”.

Tutto ciò, sottolinea, conduce anche a una più equa distribuzione della ricchezza e alla possibilità di dare credito alle piccole realtà “aumentando il potenziale di una crescita economica bilanciata”.

Se ancora pensate che si tratti di belle teorie, date un’occhiata a questi numeri.

Il mercato dei sukuk, che potremmo definire semplificando i bond islamici, è cresciuto esponenzialmente in questi ultimi anni. Dai circa 33 miliadi di dollari di sukuk presenti nel 2006, si è arrivati a un valore di 292 miliardi a dicembre 2012. E il futuro è quantomai incoraggiante.

Nel 2013, leggo nel Global sukuk report riferito al secondo quarto 2013, le emissioni di bond islamici sono cresciute ancora, spinte – strano ma neanche tanto – dalla paura del tapering americano, portandosi a un totale di 61,2 miliardi.

“Le future prospettive di crescita dei paesi del golfo e di quelli asiatici – osserva – supportano le previsione di uno sviluppo dei mercato dei sukuk, specie in ragione del crescente fabbisogno di investimenti in infrastrutture”, che il nostro banchiere quota il almeno 8.300 miliardi di dollari da qui al 2020.

Sempre a patto, ovviamente, che la finanza islamica continui ad evolversi prendendo il buono che c’è nella nostra finanza, a cominciare dalle istanze regolatorie.

Che il futuro arrida a questi strumenti finanziari alternativi, lo conferma anche un report del 28 novembre scorso di Standard&Poor’s, dal titolo icastico: “Islamic Finance 2014: We expect continued double-digit growth, and a push for regulation and standards”.

S&P calcola che gli asset totali denominati secondo i principi della Sharia siano arrivati a 1.400 miliardi di dollari, malgrado “tale industria sia ancora nella sua fase formativa”. “Ma noi crediamo – sottolineano gli autori – che sia solo una questione di tempo prima che raggiunga una massa critica”. Sempre che, ovviamente, i finanziarieri islamici riescano a definire un ambiente regolatorio di livello.

Il 2014 potrebbe essere proprio l’anno della svolta, nota S&P.

Alfieri di questo sviluppo potrebbero essere paesi come l’Oman, la Nigeria e soprattutto la Turchia e l’Indonesia.

In Turchia, paese islamico moderato, l’Islamic banking è cresciuto notevomente negli ultimi anni, grazie anche alle legislazione favorevole voluta dal governo. E il mese scorso la Turchia ha emesso il suo secondo sukuk sui mercati internazionali.

E la Turchia è a due passi dall’Europa.

CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter