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La pace e l’ordine poliarchico

Pubblichiamo di seguito la “Nota dei curatori” (F. Felice – A. Campati) del volume AA.VV., Se vuoi la pace costruisci istituzioni di pace, a cura di F. Felice – A. Campati, LUP, 2013. Atti del secondo colloquio internazionale di Dottrina sociale della Cbiesa, organizzato nel novembre 2012 dall’Area di recerca “Caritas in Veritate” della Pontificia Università Lateranense.

«Pace» è un concetto che la retorica del tardo Novecento ha fatto gradualmente scivolare verso il recinto (purtroppo sempre più affollato) che raduna le parole prive di significato perché usurate da un’enfasi tanto eccessiva quanto inconcludente.

Purtroppo, non è stata sufficiente la tragedia che ha inaugurato il secolo nel quale viviamo per far invertire una simile tendenza. A dieci anni da quell’undici settembre 2001, Luigi Bonanate ha scritto che – ancora una volta – è mancata l’unica, vera e sostanziale risposta, capace di privare il terrorismo di qualsiasi potenza: lo «spirito della democrazia». È mancata, in sostanza, «la tecnica che consente di fare politica pacificamente, escludendo dal mondo della politica chi e tutto ciò che rifiuta di rinunciare alla violenza»[i].

Certo, la prospettiva non può essere quella di una pace da ricercare in termini utopistici, sganciati dal dato storico, contingente e processuale, ma l’urgenza che la società internazionale torni a «fare politica», con le condizioni che un sano realismo può offrirle, si manifesta in maniera sempre più impellente. Soprattutto per contribuire all’edificazione di un ordine globale le cui istituzioni siano di tipo sussidiario e poliarchico – ed evitare di dar vita a un «pericoloso potere universale di tipo monocratico»[ii].

Verosimilmente, negli ultimissimi anni, proprio le continue fratture internazionali e le persistenti minacce ai centri del potere mondiale facilitano il riemergere del significato più profondo del vocabolo «pace». L’aspirazione a costruire un «ordine» che garantisca un consolidamento pacifico, però, non deve farci ricadere in propositi irrealizzabili. Da un lato, come ci insegna Sturzo[iii], c’è la storia che procede prescindendo da un qualsiasi umano deliberato equilibrio, dall’altro, dopo anni di concentrazione ossessiva sullo Stato come centro e motore della vita internazionale, appaiono nuovi studi che osservano l’emergere di realtà non immediatamente politiche come la religione che però influenzano, qualificano e permeano le dinamiche politiche[iv].

Tuttavia, parrebbe piuttosto banale sostenere sic et simpliciter che la pace sia tornata d’attualità. Piuttosto, sembra farsi largo una nuova consapevolezza attorno ad essa: priva delle incrostazioni ideologiche che per troppo tempo l’hanno avvolta (e che ne hanno causato la perdita di significato che si ricordava), la pace potrebbe tornare al centro dell’attenzione non più come un vessillo da issare fiaccamente, ma come uno strumento retto da «un ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà»[v].

Un simile sbocco può verificarsi anche grazie alla felice coincidenza fra questa possibile prospettiva per la pace e il cinquantesimo anniversario dalla promulgazione dell’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII. Nel 1963, il Pontefice scriveva:

 

In seguito alle profonde trasformazioni intervenute nei rapporti della convivenza umana, da una parte il bene comune universale solleva problemi complessi, gravissimi, estremamente urgenti, specialmente per ciò che riguarda la sicurezza e la pace mondiale; dall’altra parte i poteri pubblici delle singole comunità politiche, posti come sono su un piede di uguaglianza giuridica tra essi, per quanto moltiplichino i loro incontri e acuiscano la loro ingegnosità nell’elaborare nuovi strumenti giuridici, non sono più in grado di affrontare e risolvere gli accennati problemi adeguatamente: e ciò non tanto per mancanza di buona volontà o di iniziativa, ma a motivo di una loro deficienza strutturale[vi].

 

Sono parole significative, scritte in un clima geopolitico profondamente differente da quello odierno, ma che resistono ancora come fonte per proseguire – il più possibile concretamente – verso l’affermazione non di una indistinta retorica della pace, quanto di autentiche «istituzioni di pace». Perché se anche oggi riscontriamo una «deficienza strutturale» nell’ordine internazionale e nella sua governance, non possiamo credere di poterla colmare con costruzioni artificiose, inadeguate e, per questo, dannose[vii].

La Pacem in terris, la Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, la Caritas in veritate (per citare solo tre documenti) esortano i cattolici di tutto il mondo a considerare tali problemi alla luce del contesto globale: un contesto irriducibile all’azione di governo (locale o globale che sia), in quanto irriducibile alla politica e alla sua funzione amministrativa, e fortemente proiettato verso una «governance sussidiaria e poliarchica» che, dal basso verso l’alto, intraprenda la cosiddetta «via istituzionale della carità», per usare una bella e convincente espressione presente nella Caritas in veritate di Benedetto XVI.

Per queste ragioni, crediamo sia necessario un supplemento di riflessione su tali temi. Una riflessione che, d’altronde, da sempre è alla base del lavoro svolto dall’Area Internazionale di Ricerca “Caritas in Veritate” sulla Dottrina sociale della Chiesa, istituita nel 2010 presso la Pontificia Università Lateranense. Gli autori che hanno contributo agli atti del secondo Colloquio hanno accettato una sfida importante. Ciascuno ha accolto l’invito, rivolto dagli organizzatori, di fare fino in fondo il proprio mestiere di scienziato sociale o di teologo, lasciandosi interpellare dai tentativi di soluzione delle situazioni problematiche portati in dote dai propri interlocutori.

L’economista, il sociologo, il politologo, il giurista e il teologo non hanno avanzato la pretesa di invadere il campo altrui, né tanto meno si sono chiusi nel proprio labirinto disciplinare. Piuttosto hanno accettato la sfida del confronto critico, tipico dell’approccio transdisciplinare. Un approccio che non giustappone in modo asettico le questioni etiche a quelle socio-politiche né sostituisce, confondendole, le une alle altre. Quanto, piuttosto, un approccio tipicamente sturziano alle questioni socio-politiche che attraversa le singole discipline, nel loro oggetto comune, l’homo agens, e lega tra loro le questioni ritenute rilevanti sulla base di una prospettiva antropologica dichiarata: la centralità ontologica, metodologica e morale della persona, e quindi di un ideale di società contraddistinto dai principi di libertà e di giustizia ad essa conformi. In breve, un metodo che si mostri attento a cogliere la reciproca influenza che ciascuna disciplina può esercitare sull’altra, in relazione al loro contenuto comune rappresentato, appunto, dalla persona.

Per concludere, riprendendo le considerazioni della Pacem in terris circa l’impossibilità di risolvere il «bene comune universale» nella politica e nelle «comunità pubbliche», e collegandole alla recente enciclica di Papa Francesco Lumen fidei, crediamo sia opportuno rilevare (per evitarlo) il rischio di affidarci a «soluzioni e proposte immediate» che potrebbero «bloccare il cammino» che, pur tra vette ed abissi, l’umanità ha intrapreso. Un cammino-processo che ha assunto la forma storica delle istituzioni politiche, economiche e culturali, certo segnate dalla contingenza e dal peccato di coloro che le fondano e quotidianamente le vivono ma, nel contempo, indispensabili per la convivenza e la crescita morale di persone libere e responsabili.

D’altronde, tra gli altri, è Sturzo a metterci in guardia, rilevando che:

 

può sembrare strano, ma lo spirito del male è talmente insito alla struttura sociale che spesso si confonde con «l’ordine stabilito», con «le tradizioni dei seniori», con «i fatti compiuti»; in una parola: con tutto quello che viene stabilizzato in nome dell’uomo. Da qui il bisogno continuo, sentito dai migliori, di promuovere delle riforme, di affermare degli ideali anche se fin ad oggi non realizzati e forse non realizzabili, di proclamare il regno della pace: è uno sforzo di liberazione dal male per potere affermare il bene[viii].

 

Rifuggire da soluzioni palesemente inadeguate, dunque, è la sfida che abbiamo davanti. Anzitutto, come esorta Papa Francesco, per non farci «rubare la speranza», ma anche per evitare che siano proprio le proposte sganciate dal dato storico a «frammentare» il tempo e la sua dimensione processuale; una dimensione che, come ci ricorda Sturzo, necessita di una continua opera riformatrice. A questo punto, il tempo «frammentato» si presta ad essere percepito in termini puramente spaziali e i suoi frammenti diventano il luogo atemporale nel quale la persona è assunta come mezzo per la realizzazione di fini, non necessariamente conformi alla sua dignità, ma giudicati indispensabili per la realizzazione di un ipotetico fine della storia, imposto come necessario. Il conservatorismo e il progressismo, negando la dimensione processuale della storia e assumendo il carattere di necessità contro quello di libertà dell’azione umana, trovano nello storicismo costruttivista un comune terreno ideale che finisce per condannarci a rimanere fossilizzati nell’«ordine stabilito» di cui parla don Sturzo.

In altre parole, ed è l’invito di Papa Francesco, è necessario tornare a riflettere – e ad agire – con la mente non solo occupata nella gestione dell’ordinario, ma proiettata sul domani. Il vivere da cristiani la socialità non è mai un’avventura statica e definitiva, bensì un’esperienza processuale e dinamica[ix], dal momento che «lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza»[x].

 


[i] L. Bonanate, Undicisettembre. Dieci anni dopo, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 135. Per un approfondimento, si veda Id., La pace democratica in G.J. Ikenberry – V.E. Parsi, Manuale di Relazioni Internazionali. Dal sistema bipolare all’età globale, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 175-194.

[ii] Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 57, ma anche il n. 67 andrebbe in questa direzione, insistendo sul concetto di governance della globalizzazione, piuttosto che di government. Per un ampio approfondimento su questi temi si vedano gli atti del precedente Colloquio, F. Felice – J. Spitzer [Edd.], Il ruolo delle istituzioni alla luce dei principi di sussidiarietà, di poliarchia e di solidarietà. Atti del Colloquio Internazionale di Dottrina Sociale della Chiesa, Lateran University Press, Città del Vaticano 2012.

[iii] Si considerino, in particolare: L. Sturzo, La vera vita. Sociologia del soprannaturale (1947), prima serie, vol. VII dell’Opera Omnia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005 e Id., La società. Sua natura e leggi (1935), prima serie, vol. III dell’Opera Omnia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005.

[iv] Si veda, per esempio, V. Coralluzzo – L. Ozzano [Ed.], Religioni tra pace e guerra. Il sacro nelle relazioni internazionali del XXI secolo, Utet, Torino 2012.

[v] Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 89.

[vi] Ivi, n. 70. Corsivo aggiunto.

[vii] L’istituzione di un’autorità pubblica sovranazionale alla quale assegnare la funzione di vertice sintetico delle competenze particolari provenienti dalla poliarchica società civile crediamo vada in questa direzione. Cfr. «Ciò di cui avremmo bisogno è un’economia globale di mercato, che però presuppone una global governance, cosa realisticamente raggiungibile tutt’al più in forma di accordi intergovernativi, a loro volta purtroppo altrettanto difficili da realizzare»: cfr. W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013, p. 274.

[viii] L. Sturzo, La vera vita. Sociologia del soprannaturale, cit., pp. 154-155.

[ix] Cfr. L. Sturzo, La società. Sua natura e leggi, cit., p. 34.

[x] Francesco, Lumen Fidei, n. 57.



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