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Le variabili politiche del Joint Forcible Entry

Cosa accadrà nel dopo-Afghanistan?
Le lezioni apprese sui polverosi altipiani centro-asiatici saranno utili per i prossimi scenari di impiego?
Se lo chiedono in molti, specie in America, dove si sta imponendo il Joint Forcible Entry (JFE), il concetto operativo di impiego di forze di reazione rapida in grado di raggiungere in poche ore ogni luogo della terra. In termini ideologici il JFE supporta un modello di “accesso ai global commons” che vede ormai le forze armate parte integrante del funzionamento del sistema economico, in particolare nell’ipotesi che questo cessi di funzionare secondo gli interessi americani e degli alleati in alcuni segmenti del mercato mondiale.

Secondo alcuni analisti l’Afghanistan rischia di non essere particolarmente utile, essendo stato concepito in una fase in cui l’esplosione della connettività non aveva minimamente raggiunto i livelli attuali, e inoltre applicato in un ambiente scarsamente popolato e urbanizzato. La tesi di David Kilcullen, esperto australiano di controguerriglia, sembra puntare in questa direzione, combinando JFE con specifiche realtà di intervento costiero, dove le megalopoli litoranee globalizzate e connesse saranno il teatro del conflitto asimettrico.

Il ritiro di Isaf in questo senso sarebbe la presa d’atto che la missione non offre valore aggiunto alla promozione di forze capaci di compiere azioni rapide di accesso, contro nemici dotati di armi di contropenetrazione abbastanza sofisticate e in condizioni di vantaggio asimmetrico iniziale.

Su Joint Force Quarterly (JFQ), edito dalla National defence university, i capi della 82a Divisione Aviotrasportata Usa propongono la loro unità, una delle più prestigiose della Us Army, come punta di diamante nell’ambito di operazioni JFE, che essi definiscono come strettamente funzionale a risultati politici, ovvero come “la capacità interforze di attraversare i global commons e proiettare forza terrestre al fine di ottenere e mantenere l’accesso nei tempi e nei modi scelti“. A supporto della loro tesi dell’efficacia politico-militare della JFE attraverso l’impiego di paracadutisti, ricordano i precedenti: Grenada nel 1983, Panama nel 1989, confine Irak-Arabia Saudita nel 1990 e Haiti nel 1994 (in questi due ultimi casi non fu nemmeno necessario intervenire, ma la semplice minaccia del dispiegamento fece rientrare situazioni pericolose per gli interessi americani).

Dal 1994 tuttavia sono passati 20 anni e i capi della 82a e delle forze aeree concordano che non sarebbero più in grado di realizzare da soli un’operazione come Uphold Democracy (4000 paracadutisti su 60 aerei, che furono allora sufficienti ad ottenere il risultato politico di costringere alle dimissioni il dittatore Aristide).

Entrano qui in campo gli alleati con capacità di reazione rapida adeguata, e l’articolo del JFQ ne cita esplicitamente solo due, che stanno ristrutturando le loro forze secondo priorità e concetti di impiego analoghi al JFE americano: Gran Bretagna e Francia.

Sarebbe questa una visione diversa da quella prospettata dalla Rand, think-tank interforze ma con radici storiche nel complesso aerospaziale, che in uno studio ha parlato di un network globale di forze speciali alleate (Global Sof network) suddivise in gruppi regionali con capacità di mettere “small footprints” (piccole orme) in aree fondamentali come l’Africa. Un’idea nata nello USSOCOM (Us Special Operations Command), e che, se portata avanti nel complesso militare-politico Usa, potrebbe vedere coinvolti un maggior numero di partner, ovviamente inclusa l’Italia, con capacità mista civile-militare di presidio duraturo del link tra equilibri locali e interessi americani e globali, più che con capacità e tradizioni puramente militari di proiezione “spot” fuori area.



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