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Letta e Renzi, cavalli di razza o ronzini?

E’ un po’ d’ufficio e un po’ d’amicizia l’ottimismo di Dario Franceschini sullo sviluppo dei rapporti fra Enrico Letta e Matteo Renzi.

D’ufficio perché come ministro per i rapporti con il Parlamento egli è tenuto a diffondere fiducia sulla capacità di sopravvivenza del governo, minacciata sia dai margini della maggioranza, ridottisi dopo il passaggio della rinata Forza Italia di Silvio Berlusconi all’opposizione, sia dalle spallate che, con l’aria di stimolarlo, gli dà un giorno sì e l’altro pure il sindaco di Firenze e imminente nuovo segretario del Pd. D’amicizia, sempre l’ottimismo di Franceschini, per i sentimenti di questo tipo che lo legano ad entrambi, Letta a Renzi, ma che nella campagna congressuale in corso nel maggiore partito di governo lo incollano più al secondo che al primo. Netta infatti è stata la sua scelta a favore della candidatura del sindaco fiorentino a segretario. E amico, nella storia della Dc, dalla quale provengono i tre, è sinonimo di appartenenza di corrente.

Quando Aldo Moro, nell’estate del 1968, decise di staccarsi dai “dorotei” di Mariano Rumor, Flaminio Piccoli e Antonio Bisaglia, che lo avevano appena sfrattato da Palazzo Chigi per una nuova versione di governo di centrosinistra, “più avanzato e coraggioso” nei riguardi sia degli alleati socialisti sia dell’opposizione comunista, non si sprecò in molti esercizi di fantasia per dare un nome al proprio gruppo. O per confermare quello – “Confronto” – che avevano cercato subito di applicargli estimatori e cronisti politici. Lo chiamò semplicemente, e più chiaramente, “Amici dell’onorevole Moro”. Come amici di Amintore Fanfani erano i seguaci dell’allora presidente del Senato, anche se la loro corrente si chiamava “Nuove Cronache”. O amici di Carlo Donat-Cattin quelli della sinistra chiamata “Forze Nuove”. O amici di “Albertino” Marcora, al nord, e di Ciriaco De Mita, al sud, quelli della sinistra chiamata “Base”.

E’ storia d’altri tempi, d’accordo, anche se ogni tanto, a torto o a ragione, compare come un fantasma nel dibattito politico la “Balena bianca” inventata da Giampaolo Pansa per rappresentare la Dc. Ma dev’essere una storia anagraficamente, culturalmente e politicamente familiare sia per Enrico Letta, sia per Matteo Renzi, sia per Dario Franceschini. Il quale ne è tanto impregnato che, sempre in chiave ottimistica, ha recentemente paragonato gli altri due a “cavalli di razza” non necessariamente destinati a correre l’uno contro l’altro, ma capaci d’intendersi a perfezione.

Di cavalli di razza, così chiamati una volta da Carlo Donat-Cattin con un pizzico di perfidia omissiva nei riguardi di Giulio Andreotti e di altri che si ritenevano anch’essi parte importante della scuderia, ce ne furono nella Dc appunto due. Furono Aldo Moro e Amintore Fanfani, che si contesero tutto: segreteria del partito, guida del governo e Quirinale. Obbiettivo, quest’ultimo, che però mancarono entrambi.

In effetti, come dice Franceschini, i due furono anche in grado di ritrovarsi insieme. Una volta, nel 1973, per risolvere a tavolino, alla vigilia dell’apertura formale dei lavori, un congresso del partito che stava per sancire la conferma di Arnaldo Forlani alla segreteria e di Andreotti alla guida del governo. L’altra volta in cui i due si ritrovarono fu purtroppo drammatica: nel 1978.

Accadde, in particolare, quando Moro, prigioniero delle Brigate rosse dal 16 marzo, chiedeva soccorso al suo partito per scampare alla terribile morte decisa dai suoi aguzzini. E Fanfani decise di accoglierne gli appelli disperati correndo il 9 maggio ad una improvvisata riunione della direzione della Dc per schierarsi a favore della grazia per una dei tredici detenuti con i quali i terroristi pretendevano di scambiare il loro prigioniero. Ma Fanfani non riuscì ad arrivare in tempo a quell’appuntamento, peraltro concordato segretamente con un presidente della Repubblica, Giovanni Leone, pronto “con la penna in mano” a firmare il provvedimento di clemenza per Paola Besuschio. La riunione della direzione scudocrociata fu preceduta di pochissime ore dall’assassinio di Moro, con una tempestività nella quale il povero Leone si sarebbe a lungo macerato chiedendosi su quali informatori i terroristi avessero potuto contare per prevenire un passaggio che avrebbe messo ulteriormente alla prova la loro già incrinata compattezza di belve.

Franceschini non avrà pensato, non foss’altro per ragioni scaramantiche, al tragico epilogo della storia dei due cavalli di razza della Dc quando ha scomodato la rappresentazione equina per applicarla a Enrico Letta e a Matteo Renzi. Ma, francamente, scomodare Moro e Fanfani per paragonare, probabilmente, il presidente del Consiglio al primo e l’imminente segretario del Pd al secondo sembra un azzardo, anche al netto di quella tragica primavera del 1978.

Più che a due cavalli di razza, Letta e Renzi rischiano di rivelarsi ronzini per l’incapacità di entrambi di valutarsi appieno. Ma soprattutto di valutare, specialmente Renzi, la drammatica situazione di un Paese che potrebbe finire nelle mani di un comico, il Beppe Grillo dei vaffanculo, con elezioni anticipate. Elezioni poco importa se più subite da un Letta defilatosi dal congresso del suo partito o più provocate da un Renzi troppo spavaldo.

Francesco Damato

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