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Martelli, Occhetto, i conti all’estero e la lotta anti mafia

Da par suo, avendo conservata intatta la sua brillantezza giovanile, Claudio Martelli su Italia Oggi di giovedì 12 dicembre, intervistato da Goffredo Pistelli, ha dato una fulminante e urticante definizione di tutto il lavoro giudiziario ancora aperto sulle trattative che si sarebbero svolte fra lo Stato, o suoi pezzi, e Cosa Nostra nella stagione delle stragi: “archeologia della lotta antimafia”. Archeologia per i vent’anni e più trascorsi da quei fatti, di cui sono stati chiamati a rispondere una decina di imputati – tra mafiosi, generali e politici – ad un processo in corso a Palermo. Che è quello cui è stato chiamato a testimoniare persino il presidente della Repubblica, già intercettato durante le indagini. Ma archeologia anche rispetto agli spazi nuovi, e in gran parte inesplorati da chi dovrebbe contrastarli, che la mafia si è guadagnata negli interstizi della crisi economica e sociale che sta strangolando adesso il Paese.

UN RUOLO INDIRETTO
Eppure Martelli ha contribuito, volente o nolente, a fare sopravvivere l’archeologia della lotta alla mafia da lui così acutamente denunciata. L’ha fatta sopravvivere alimentando, insieme con il suo ex collega di governo Enzo Scotti, i sospetti o la fantasia dei pubblici ministeri di Palermo a proposito di quei lontani avvenimenti.

LE OMBRE SUL CONTRASTO ALLA MAFIA
In particolare, Scotti e Martelli, entrambi ascoltati dagli inquirenti, hanno in qualche modo accreditato, se non addirittura incoraggiato, l’impressione di avere perduto fra il 1992 e il 1993 i loro incarichi ministeriali, rispettivamente all’Interno e alla Giustizia, per la loro intransigenza nella lotta alla mafia, e conseguente indisponibilità a tollerare ogni forma di trattativa per prevenire o ridurre le stragi mafiose che segnarono quegli anni.
Al posto di Scotti andò al Viminale il 28 giugno 1992, nel primo governo di Giuliano Amato, il collega di partito Nicola Mancino, finito tra gli imputati del processo in corso a Palermo sulla trattativa con la mafia per falsa testimonianza. Al posto di Martelli divenne ministro della Giustizia il 12 febbraio 1993, sempre nel primo governo di Giuliano Amato, il giurista Giovanni Conso, assuntosi poi davanti ai magistrati la responsabilità di avere allora alleggerito autonomamente il trattamento carcerario di molti detenuti per reati di mafia.

LE CRONACHE POLITICHE
Ma agli inquirenti di Palermo, prima ancora di sentire Martelli e Scotti, e di interpretarne i ricordi, sarebbe bastato leggersi bene le cronache politiche di quei tempi per farsi un’idea più precisa, e meno collegata alla lotta alla mafia, delle ragioni degli avvicendamenti verificatisi ai vertici dei Ministeri dell’Interno e della Giustizia più d vent’anni fa.

LE VICENDE DI SCOTTI
Il democristiano Scotti, comunque compensato politicamente con la Farnesina, perse il Viminale per essere incorso in un incidente di partito e di maggioranza. Era, in particolare, accaduto che dopo le elezioni del 1992 e la salita di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale egli si fosse offerto o avesse risposto con interesse, secondo altre versioni, alla tentazione mostrata dal capo dello Stato di nominarlo presidente del Consiglio. Cosa che, giunta da Marco Pannella dopo un colloquio con lo stesso Scalfaro alle orecchie degli allora segretari della Dc Arnaldo Forlani e del Psi Bettino Craxi, non fu gradita né all’uno né all’altro. All’uno perché voleva Craxi a Palazzo Chigi, secondo intese raggiunte già prima delle elezioni, e all’altro perché si aspettava appunto la nomina, per quanto fossero già forti i rumori provenienti contro di lui dagli uffici giudiziari di Milano per Tangentopoli.

L’INTERESSE DI SCALFARO
Ma l’interesse di Scalfaro non si fermò a Scotti. Si estese anche al socialista Martelli, nella presunzione che il suo nome, al posto di Craxi, potesse favorire una posizione di attesa o una più costruttiva opposizione del Pds-ex Pci guidato da Achille Occhetto. Anche dell’interesse di Scalfaro per Martelli vennero informati Forlani e Craxi, che ugualmente non gradirono. E pure Martelli rischiò una sostanziale ritorsione nella formazione del nuovo governo, rimanendone fuori o passando dalla Giustizia ad un altro dicastero. Ma Craxi, intanto costretto a lasciare il passo ad Amato per Palazzo Chigi di fronte alle resistenze di Scalfaro, cresciute dopo una consultazione inusuale del capo della Procura di Milano, finì per lasciare Martelli al suo posto. Lo fece accogliendone la richiesta – mi disse personalmente in quei giorni – di non interromperne l’azione di Guardasigilli sulla strada avviata in collaborazione con un eroe dell’antimafia come Falcone, ucciso nella strage di Capaci poche settimane prima.

IL COINVOLGIMENTO IN TANGENTOPOLI
Solo nel mese di febbraio del 1993 Martelli lasciò il Ministero della Giustizia, sostituito da Conso, ma non per dissenso con qualcuno sulla lotta alla mafia, bensì per il coinvolgimento in Tangentopoli. Che avvenne per via di un conto svizzero del partito socialista ricondotto a lui dagli inquirenti su indicazione dell’architetto Silvano Larini, un amico di Craxi inseguito da un mandato di cattura e appena consegnatosi al magistrato Antonio Di Pietro al valico di Ventimiglia.

LO SDEGNO DI OCCHETTO
Da quel coinvolgimento, l’allora scandalizzatissimo Occhetto solo dopo vent’anni avrebbe trovato il coraggio e l’onestà di dissentire definendola “una porcata”. In particolare, in occasione di una recente partecipazione con Martelli, nella sede della Fondazione Craxi, alla presentazione di libri scritti da entrambi sulle loro esperienze politiche, egli ha detto che anche lui come dirigente del Pci avrebbe aperto o partecipato ad aprire un conto all’estero, per quanto illegale, se a chiederlo fosse stato il segretario del partito Enrico Berlinguer.


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