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Se anche la Consulta attende Renzi

Anche se ha deciso di avviare ugualmente la discussione in camera di consiglio, la Corte Costituzionale ha dato l’impressione, si vedrà se sbagliata o giusta, di volere rinviare a metà gennaio il giudizio sulla legge elettorale sottoposta al suo esame dalla Corte di Cassazione. In tal caso anche i giudici del Palazzo della Consulta si metterebbero di fatto in attesa dell’arrivo di Matteo Renzi alla segreteria del maggiore partito di governo. In attesa, in particolare, di verificare se lo spavaldo sindaco di Firenze riuscirà davvero a imporre al presidente del Consiglio e alla maggioranza ristrettasi con l’uscita di Silvio Berlusconi quella riforma della legge elettorale, appunto, che ha reclamato, o promesso, o minacciato, secondo i gusti e le interpretazioni, nella campagna congressuale arrivata ormai agli sgoccioli nel Pd.

Se ad un rinvio si dovesse veramente arrivare, limitandosi ora ad avviare l’esame in camera di consiglio, la Corte Costituzionale finirebbe per confermare, volente o nolente, ciò che a parole più o meno sdegnate i suoi giudici e presidenti hanno sempre negato: la natura in fondo politica di questo pur supremo organo di garanzia. Una natura che deriva d’altronde dalla sua stessa composizione, prescritta dall’articolo 135 della Costituzione. Dove si assegna un terzo dei quindici giudici del consesso alla nomina del presidente della Repubblica, un altro terzo all’elezione da parte del Parlamento in seduta comune e il rimanente alle scelte delle “supreme magistrature ordinaria e amministrative”.

Certo, l’articolo 135 della Costituzione prescrive pure, e fortunatamente, che i giudici del Palazzo della Consulta abbiano requisiti di provata professionalità, dovendo essere “scelti – testualmente – fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria e amministrative, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio”, ma è assai probabile, se non inevitabile, che essi siano alla fine condizionati da quell’appartenenza ad aree culturali e politiche che ha quanto meno contribuito alla loro nomina o elezione.

In caso di effettivo rinvio del verdetto a metà gennaio dell’anno nuovo, quando è già calendarizzata un’altra camera di consiglio della Corte, tutti i partiti di maggioranza, e non solo quello più grande che sta per cambiare segretario, e in qualche modo anche i partiti di opposizione che volessero contribuirvi, e non solo arroccarsi su posizioni di semplice testimonianza, avrebbero poco più di un altro mese a disposizione per cambiare davvero, come dicono da troppo di voler fare, una legge elettorale chiamata porcata dallo suo stesso, principale estensore: il leghista Roberto Calderoli, ministro delegato a questa materia nel governo di centrodestra dell’epoca in cui fu approvata, guidato da Berlusconi. Si era alla fine del 2005 e della legislatura. Le elezioni politiche con la nuova disciplina – liste bloccate e premi di maggioranza diversi tra Camera e Senato, a vantaggio della lista o della coalizione più votata, ma senza dovere neppure raggiungere una soglia minima di voti per aggiudicarseli – si sarebbero svolte il 9 e 10 aprile del 2006.

Si vedrà ora non solo se i partiti e le loro rappresentanze parlamentari otterranno dalla Corte i tempi supplementari, ma anche se vorranno e sapranno utilizzarli costruttivamente. Non sarebbero, d’altronde, tempi assai lunghi, al netto delle vacanze di Natale e fine anno che la politica non si risparmierà, per quanto malmessa. Ma già è tornata a manifestarsi dal capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, la voglia pubblicamente anticipata nelle scorse settimane anche da Beppe Grillo, pur tra precisazioni e mal di pancia dei suoi parlamentari, di votare di nuovo e presto con la legge attuale. A carico della quale la Corte Costituzionale, nella parte riguardante il premio di maggioranza non condizionato dal raggiungimento di una soglia di voti, espresse forti dubbi formalizzi qualche anno fa, nel contesto di una sentenza che impedì lo svolgimento di un referendum abrogativo dell’intera legge promosso dai radicali.

Francesco Damato   

 

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