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Alfano non stia alla finestra

Bollando come figlie di una cultura giuslavoristica vecchia e da tempo inadeguata le misure del Jobs act presentate dalla corte renziana come magiche ricette moderniste ed efficaci, il vicepremier Angelino Alfano, più che arroccarsi in difesa del governo Letta, ha delineato una prima linea di demarcazione verso un Pd che torna all’illusionismo propagandistico, ma soddisfa soltanto il ventre di un partito sempre più conservatore. Sotto la sottogliezza formale dell’accusa, Alfano ha posto una questione politica seria, aggiungendola all’altolà per le questioni relative ai valori sensibili. Vale a dire matrimonio fra omosessuali e pretesa di vedersi riconoscere figli propri provenienti da sperimentazioni mediche eugenetiche già tentate, nella prima parte del Novecento, sia pure in tutt’altro contesto e con obiettivi razzisti, dai medici nazisti.

Ciò dovrebbe stare a significare che il partito guidato da Alfano non se la sente di continuare a fungere da stampella ad un esecutivo traballante e criticatissimo da parte del corpaccione piddino proprio relativamente ai ministeri espressi dal Ncd e in giorni in cui le polemiche sono ormai al calor bianco e tutt’altro che sopite. Alfano comincia, pacatamente, a ricordare che il welfare non è il sole dell’avvenire, le concertazioni e la riqualificazione delle corporazioni costituiscono un equivoco arretramento culturale, sociale ed economico; mentre il benestare delle estreme sindacali di per sé indica come, negli jobs act, frullino vagheggii innovatori utili solo a restituire potere contrattuale ai fordisti, da un lato, e alle pretese egualitariste dei fannulloni.

Se l’intenzione del Ncd è quella di non farsi logorare restando in un governo inefficiente, pasticcione e sempre più dominato dal burocratismo lentocrate che scavalca l’animus facendi di Letta, è bene che tale orientamento venga espresso con chiarezza e lealtà. Rimanere a presidiare qualche ministero prendendo ogni giorno schiaffi dal maggior partito della coalizione e dai suoi quotidiani di riferimento, penalizza per l’oggi e per il domani. La rottura fra Renzi e Letta esisteva già prima; costituiva la motivazione principale del rifiuto della pacificazione nazionale e del dialogo corretto fra diversi; ed era prevedibile che, piuttosto prima che dopo, giungesse ad un punto di frattura.

Verifica, rimpasto, fiducia di coalizione sono ormai arnesi antichi che non meritano essere dissepolti per quindi tornare indietro rispetto agli impegni programmatici iniziali che resero possibile la rielezione di Napolitano e le grandi intese, ora ristrettesi di parecchio, anche contenutisticamente. E tutte le formazioni concorrenti a tenere in piedi una coalizione hanno il diritto-dovere non di stare alla finestra in attesa di miracolose terapie, ma di esprimere con lealtà laddove convergono e laddove, invece, trasparentemente divergono sino alla incompatibilità.

Siamo forse entrati in una fase decisiva delle relazioni politiche in Italia. La Seconda Repubblica è finita col voto del 13 febbraio 2013. La Terza Repubblica, che pareva poter essere costruita in una lunga transizione e doveva riguardare anzitutto l’ordinamento, le riforme costituzionali e istituzionali, una riforma fiscale e una, essenziale, dell’amministrazione della giustizia, è sparita dall’agenda. Se si pensa sia realistico avviarsi ad una Terza Repubblica prendendo a modello i jobs act o una legge elettorale penalizzante qualcuno (nel caso specifico, le forze politiche minori più legate alla tradizione riformista e repubblicana), non si va verso cambiamenti in positivo.

È tempo, anche per i moderati, di non piantar grane ma di riacquistare la dignità di partiti propositivi che non intendono battezzare per nuovo il vecchio e tanto meno estraniarsi da processi di ammodernamento generale: anzitutto costituzionale. Per esempio, non continuando a considerare, quella del 1948, la “costituzione più bella del mondo”, anche nella sua prima parte centrale riguardante partiti, sindacati e realtà economiche produttive che sono rappattumate sotto dispositivi svuotati di senso pratico emersi dalla inconciliabilità di strategie contrapposte tra i padri costituenti.



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