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L’atto di nascita della democrazia italiana

Quel congresso di Bari del Comitato di liberazione nazionale (Teatro Piccinni, 28-29 gennaio 1944) segnò l’avvio della rinascita democratica italiana, esprimendo sentimenti di libertà estremamente dignitosi malgrado la triste condizione in cui era crollato il nostro disunito paese. In un’Italia allo sbando su tutti i fronti militari dopo l’8 settembre – con la fuga del re e di Badoglio a Brindisi; e con una dichiarazione di cobelligeranza non presa sul serio né dai badogliani che avevano lasciato a Roma la metà dei loro effettivi, né dai comandi alleati riluttanti a riconoscere ai politici italiani una reale capacità di riacquistare una autonoma capacità di esercizio della democrazia -, il congresso di Bari costituì un miracolo di saggezza e di straordinaria unità.

IL SIGNIFICATO DI UN INCONTRO

Sentenziò il dovere di mantenersi solidali sino alla completa liberazione dell’intero territorio nazionale dal nazifascismo. Riconobbe a ciascun movimento politico che appena emergesse dall’oscuro ventennio fascista condizioni di partenza paritarie che solo un voto di popolo poteva modificare secondo la pluralità delle inclinazioni realmente presenti nella comunità tornata unita.
Gli alleati angloamericani temevano che prevalessero i partiti di sinistra coadiuvati dai vertici militari sovietici e da un dilagare, proveniente dalle coste jugoslave, di strani personaggi (alcuni buoni conoscitori della lingua italiana) che andavano insediandosi nelle Puglie e in altri territori meridionali col compito di indottrinare al comunismo elementi ribellistici e addestrarli ad ogni eventuale operazione militare diretta, al momento imprevedibile. Gli inglesi erano palesemente impegnati a salvaguardare la dinastia sabauda. Gli americani preferivano che fossero gli italiani a scegliersi il proprio destino istituzionale; e incoraggiavano (anche finanziariamente) i movimenti dichiaratamente repubblicani, come gli azionisti e i socialisti riformisti, al momento maggioritari nelle regioni del Mezzogiorno, a cominciare dalla capitale pugliese. Mentre a Brindisi, la capitale della Kings Italy, si accalcavano i Savoia e i ministri di Badoglio nella continua ricerca di una popolarità che continuava a mancar loro per un generale disinteresse dei cittadini alla politica dopo una guerra malamente perduta; cui si era aggiunto un conflitto civile fra italiani che accettavano la democrazia e italiani che immaginavano di fare, della penisola, una delle repubbliche sovietiche che si andavano organizzando in tutto l’Est europeo.

IL TENTATIVO FALLITO A NAPOLI

Già nel dicembre 1943 i nuclei antifascisti e democratici apparsi nel Sud avevano cercato di organizzare a Napoli un primo incontro fra esponenti più in vista delle regioni meridionali liberate. Dopo vaghe promesse i comandi inglesi negarono i necessari permessi a radunarsi e ad esprimere opinioni diverse dalle badogliane. Proprio lo sciocco colonialismo dei britannici indusse i democratici di varia tendenza a trasmettere messaggi di protesta a Stalin, a Roosevelt e a Churchill, richiamando sull’Italia l’attenzione dei capi del mondo. I quali erano in quella fase impegnati ad organizzare l’apertura di un secondo fronte militare in Europa occidentale onde sottrarre parte delle forze germaniche utilizzate ad Est contro i sovietici, che venivano in continuazione riforniti da aiuti militari e alimentari dagli americani.

PERCHE’ BARI

Nel gennaio 1944 la Sicilia e le altre zone liberate dell’Italia meridionale vennero restituite alla giurisdizione del governo italiano: sempre però affiancato dalla commissione alleata di controllo, cui restò riservato il coordinamento delle azioni militari. Il 22 gennaio truppe alleate sbarcarono fra Anzio e Nettuno, creando l’illusione di poter presto giungere a Roma. Ma una forte resistenza dei tedeschi e dei giovani fascisti repubblicani bloccò per alcuni mesi l’avanzata angloamericana nel Lazio, lasciando intendere al mondo che il conflitto era tutt’altro che prossimo a concludersi.
Gli inglesi prima fecero di tutto per impedire lo svolgimento di un congresso di esponenti politici italiani. Poi di ridimensionare la portata di quello indetto a Bari col benestare del Cln clandestino di Roma, nel quale prevalevano le direttive di Ivanoe Bonomi e Alcide De Gasperi, favorevoli ad una maggiore intesa fra politici italiani e comandi alleati. Gli americani trovarono con gli inglesi una formula di compromesso: l’incontro voluto dal Cln si sarebbe svolto in una città più a Sud di Napoli, cioè più lontana dal fronte, fermo fra l’Abruzzo, la Campania settentrionale e il basso Lazio. Bari era praticamente sotto l’esclusivo controllo inglese, ma i partiti (di massima legati a personalità del prefascismo e, qua e là, a giovani che non avevano precedenti esperienze politiche) ora si mostravano vivi, ansiosi di esprimersi liberamente e senza censure: né militari, né politiche.

I DIFFICILI PREPARATIVI

A Bari, il locale quotidiano, La Gazzetta del Mezzogiorno, era stato da qualche giorno affidato alla direzione del vicedirettore Luigi De Secly, liberale crociano, e si assunse il compito di dare risalto al Congresso del Cln: sempre però nell’ambito dei condizionamenti frapposti dai comandi britannici. I quali vietarono che si ricorresse ad amplificazioni radiofoniche esterne e ad assembramenti di più di tre persone all’esterno del Teatro Piccinni; e sino all’ultimo momento cercarono di impedire la presenza di giornalisti, decidendo infine di rilasciare permessi di partecipazione a un numero ristrettissimo (non più di 90) di delegati delle province liberate. Le altissime proteste dei partiti e l’intervento più liberale degli americani rese possibile un’intesa: i delegati sarebbero stati in totale centoventi, in rappresentanza di tutti i movimenti realmente presenti sulla scena politica meridionale.

I PROTAGONISTI

Protagonisti della due-giorni barese furono Benedetto Croce (da tutti considerato una sorta di papa laico ecumenico capace di sintetizzare bene la religione della libertà che si andava a rivendicare dopo vent’anni di autoritarismo perdente), Carlo Sforza (sgradito agli inglesi), Arangio Ruiz, Giulio Rodinò, Alberto Cianca, Tino Zaniboni e il giovane organizzatore Michele Cifarelli. I centoventi delegati erano suddivisi fra 24 azionisti, 21 comunisti, 21 socialisti, 9 demolaburisti, 19 liberali, 21 democristiani e 2 esponenti di giustizia e libertà. Il consesso ebbe in tal modo una base esarchica (come il Cln clandestino), e anticipò una formula di governo che si sarebbe protratta sino al giugno 1946.
Punto di disaccordo, la questione istituzionale, non essendoci unità antimonarchica né nella Dc né fra i liberali. Ebbe però ad affermare Croce: “…Sino a che il re starà sul trono, noi non potremo dare alla lotta il nostro contributo; il fascismo ci rimane attaccato addosso, non possiamo respirare né vivere, non possiamo contribuire alla rinascita d’Italia”. Azionisti, socialisti e comunisti formularono un ordine del giorno per proporre la nomina, da parte del congresso, di un nuovo governo, disconoscendo apertamente quello presieduto da Badoglio. Nel pomeriggio del 28, nella notte successiva e nella mattinata del 29 gennaio, tra i rappresentanti dei partiti e ai bordi della platea congressuale, si ricercarono punti di riavvicinamento fra le varie tendenze. Arduo, ma benefico, risultò il lavoro della Dc, che rivelò l’abilità inattesa di Ugo Rodinò. Il giovane democristiano napoletano (figlio del più noto Giulio) riuscì ad ottenere il ritiro della mozione delle sinistre e a richiamare la quasi unanimità dei consensi su un altro documento.

L’ODG FINALE

Sottoscritto da Adolfo Omodeo (azionista), Velio Spano (comunista), Andrea Gallo (demolaburista), Michele Di Pietro (liberale), Luigi Sansone (socialista) e Angelico Venuti (democristiano), l’odg finale riconosceva l’inesistenza delle condizioni per “l’immediata soluzione della questione istituzionale”; ma anche l’esigenza della “abdicazione immediata del re, responsabile della sciagura del paese”, quale “presupposto innegabile della ricostruzione morale a materiale italiana”. Il congresso, “espressione vera e unica della volontà e delle forze della nazione”, proclamò quindi “la necessità di pervenire alla composizione di un governo con i pieni poteri del momento di eccezione e con la partecipazione di tutti i partiti rappresentati” in quella sede. Il governo venne stimolato a “intensificare al massimo lo sforzo bellico”; ad “avviare a soluzione i più urgenti problemi della vita italiana, con l’appoggio delle masse popolari”; a “predisporre, con garanzia di imparzialità e libertà, la convocazione dell’assemblea costituente, da indire appena cessate le ostilità”.

L’odg venne approvato con le sole astensioni del liberale Francesco Cocco Ortu e del socialista Angelo Corso, intransigenti sulla pregiudiziale repubblicana, su mandato degli ambienti dell’antifascismo sardo. Il congresso deliberò infine la costituzione di un organismo atto a gestire la più sollecita e unitaria messa in atto dei compiti sottoscritti, cui si diede il nome di “Giunta esecutiva permanente dei comitati di liberazione dell’Italia meridionale”. Risultarono eletti a costituirla l’azionista Vincenzo Calace, il comunista Velio Spano, il demolaburista Francesco Cerabona, il liberale Vincenzo Arangio Ruiz, il socialista Oreste Lizzadri, il democristiano Angelo Raffaele Jervolino.

LA SPINTA DI BARI

Come si vede, da Bari presero le mosse la spinta alla abdicazione di Vittorio Emanuele III; l’impegno a sostituire il governo Badoglio con un ministero di coalizione che potesse raccogliere il consenso di larghe masse di popolo; la decisione di eleggere a liberazione totale dei territori occupati dai nazifascisti una assemblea costituente; l’idea di un referendum istituzionale che sciogliesse il nodo monarchia-repubblica; una comune accettazione del metodo democratico per assicurare al paese ampi spazi di libertà. Insomma vide la luce a Bari il complesso di valori e indicazioni più avanti recuperate per ricollocare l’Italia nel novero dei paesi liberi.

Giovanni Di Capua

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