Qual è oggi la rappresentazione dei migranti sui media? E in che relazione sta con la rappresentanza in politica delle varie istanze relative al fenomeno migratorio? L’operazione di dare volto e voce agli sconosciuti che raggiungono per vie traverse il nostro paese assume forme diverse, a seconda che lo scopo sia la visibilità nella narrazione della stampa o l’effettività dell’azione politica; ma l’immagine trasferita all’opinione pubblica è strettamente correlata alla direzione della proposta legislativa, e agli intenti che essa rappresenta.
In che misura il cambiamento di rotta delle policies sull’immigrazione passa per il ridisegno del profilo “pubblico” del migrante, e viceversa: com’è possibile intervenire, tramite provvedimenti e risoluzioni, anche sulla percezione della figura dello straniero? Rispondono Deborah Bergamini, deputato e responsabile Comunicazione di Forza Italia, capogruppo PDL in Commissione Esteri, e Khalid Chaouki, deputato e responsabile nazionale Nuovi Italiani del Partito Democratico, membro della Commissione Esteri della Camera dei Deputati.
Immigrazione non è sinonimo di sbarchi clandestini dal Nord Africa, ma per i media sembra comunque sinonimo di illegalità. Poche settimane dopo la tragedia di Lampedusa, c’è chi ha scritto che anche in questo caso hanno pesato dinamiche migratorie fuori controllo. Siete d’accordo?
BERGAMINI: Sì, sono d’accordo. Gli immigrati clandestini “non esistono” per lo stato e per i servizi, non hanno dunque alcun tipo di assistenza. Vivono nascosti e spesso impauriti, facili prede della criminalità organizzata che, a seconda della nazionalità, li impiega in modi diversi. I nordafricani di solito nello spaccio, i cinesi schiavi operai come nella prima rivoluzione industriale. Isolati, spesso non parlano neppure l’italiano, sono ignari dei loro diritti… Un’immigrazione regolata, invece, accoglie gli stranieri, li guida e li instrada. In questo modo i loro diritti umani sono più tutelati ed i fenomeni di devianza più contenuti.
CHAOUKI: Senz’altro l’immigrazione è un fenomeno che va gestito e regolamentato. Ma se oggi è fuori controllo, questo avviene a causa della legge Bossi Fini, una legge ingiusta, liberticida e schizofrenica, che rende complicatissimo per un immigrato un percorso di integrazione virtuosa. La Bossi-Fini, a tutti gli effetti, favorisce la clandestinità. Di fatto non puoi ottenere un contratto di lavoro regolare se non hai il permesso di soggiorno. E non puoi ottenere il permesso di soggiorno se non hai un contratto di lavoro regolare. Una follia! Del resto persino Gianfranco Fini, uno dei firmatari, ha ammesso che la legge va cambiata. Le norme italiane in tema di immigrazione sono palesemente inadeguate alla società odierna. E costose. Infatti l’Unione Europea l’anno scorso ha sanzionato l’Italia per i rimpatri verso la Libia di 24 persone, rimpatri avvenuti nel 2009. Penso, inoltre, che andrebbero soppressi, o drasticamente modificati, i CIE, considerato che il Senato di recente si è pronunciato contro il reato di clandestinità alla base di queste strutture concentrazionarie.
Resta vero che le storie degli immigrati nel nostro paese emergono solo nell’emergenza. Secondo le ricerche, la trattazione da parte dei mezzi di informazione è dominata dalla cronaca, in modo da ridurre la realtà dell’immigrazione alla sua dimensione criminale. E’ un problema dei media, della società, o della politica?
CHAOUKI: I media diffondono certamente stereotipi e luoghi comuni sul fenomeno migratorio, e amplificano oltremisura singoli fatti di cronaca nera relativi a immigrati. Perciò anche i media hanno considerevoli responsabilità, visto che i loro contenuti raggiungono e influenzano milioni di persone. Ma, com’è noto, è la politica a dettare la loro agenda. Io credo perciò che le responsabilità principali siano della politica, che sul tema dell’immigrazione non ha una visione di lungo raggio. Al contrario. Spesso una certa politica, al centro come nelle periferie, per deplorevoli finalità elettoralistiche, alimenta xenofobia e odio razziale, utilizzando gli immigrati come capro espiatorio di tutti i problemi italiani.
BERGAMINI: Secondo me invece la responsabilità è principalmente dei media, e poi anche della politica e della società. I media trattano solo le notizie che fanno scalpore, in ogni ambito, e l’immigrazione non fa eccezione. Di conseguenza anche la società, così come la politica, che ne fa parte. Tuttavia credo che sia la società civile che la politica abbiano un’attenzione più costante a questi temi, anche se non raccontata. Sono numerosissime, infatti, le associazioni e le ONG che si occupano di assistenza ai migranti, nelle loro varie sfaccettature (etniche, di genere, di età). E la politica, quella della gestione quotidiana dei problemi e delle questioni che, appunto, non vanno in prima pagina, ha ben presente i fenomeni e le difficoltà che attraversano il paese, immigrazione compresa.
E allora, meglio parlarne o non parlarne? Dal vostro punto di vista, giova di più all’integrazione metterla costantemente a tema, rischiando di trasformarla in una perenne eccezione rispetto alla “regola” sociale, o scegliere il silenzio, che però rischia di farne dimenticare i problemi?
BERGAMINI: Meglio parlarne, come di ogni cosa. L’ignoranza, il chiudere gli occhi di fronte ad un fenomeno, non sono mai la soluzione. E poi gli immigrati sono una minoranza assolutamente visibile sul nostro territorio, non parlarne vorrebbe dire censurarla.
CHAOUKI: Sono d’accordo, non ci sono dubbi: meglio parlarne. Parlarne in maniera adeguata, s’intende. Occorre un approccio empirico al fenomeno migratorio, scevro di pregiudizi, stereotipi e idiosincrasie. Ad esempio, pochi sanno che nel 2011, in termini di entrate fiscali e previdenziali, gli immigrati hanno versato allo Stato Italiano 13,5 miliardi di euro e che le imprese fondate, partecipate o gestite da stranieri nel 2012 hanno prodotto un valore aggiunto di 7 miliardi di euro (sono dati IDOS). È evidente, quindi, che l’Italia non può fare a meno di queste energie multietniche e che è insensato – e paranoico – ridurre il fenomeno migratorio a un problema di ordine pubblico. Peraltro non dobbiamo dimenticare, dinanzi a eventi delittuosi, che per la nostra costituzione la responsabilità penale è individuale: conta solo il delitto commesso dalla singola persona, non l’etnia di appartenenza.
Parlavamo poco fa del rapporto tra media e politica, e di chi tra i due detta l’agenda sull’immigrazione. Nella vostra esperienza, in che modo ha pesato sull’iniziativa politica e legislativa la pressione esercitata dalla raffigurazione mediatica dello straniero?
CHAOUKI: Ha sempre pesato molto. Negli anni passati diversi partiti politici hanno costruito una base di consenso proprio su un’immagine sbagliata dello straniero, su una “strategia della paura” che mirava ad individuare nell’extracomunitario la fonte di tutti i problemi nazionali. Questa situazione, con la pesante crisi di questi anni, si è addirittura acuita. Va ripensata l’immagine dello straniero, ma io dico che va ripensata anche l’immagine dell’italiano, perché ci sono nel nostro paese ormai moltissimi nuovi italiani, cittadini di fatto e stranieri per legge che fanno pienamente parte del tessuto sociale italiano e che, come diceva poc’anzi l’onorevole Bergamini, non possiamo continuare ad ignorare.
BERGAMINI: Fino a quando ho svolto la professione giornalistica, e poi in seguito come dirigente della RAI, ero anch’io convinta che fosse la politica a dettare l’agenda: ma da quando sono stata eletta, ho vissuto in prima persona la difficoltà della rappresentanza in un momento nel quale il sistema dell’informazione, e in particolare i social media, agiscono da catalizzatori del dissenso. Nell’attuale situazione, la politica rischia di trovarsi banalmente a rincorrere la protesta. Va detto che la pressione mediatica, in generale, influenza l’attività politica di chi è influenzabile. E’ molto facile oggi, anche grazie ai social media, creare campagne e movimenti d’opinione in pochissimo tempo… Sono ondate di dissenso organizzato che passano tanto velocemente come si formano, il politico che le rincorre non è un buon rappresentante. Non si deve lasciarsi spaventare dalla massa dei “sempre in dissenso”, anche perché spesso coloro che invece sono d’accordo non sono assenti ma semplicemente silenziosi. Le decisioni del legislatore, in ogni caso, non devono mai essere prese sull’onda dell’emotività.
Ma è possibile intervenire sulla percezione della figura dello straniero per via legislativa, senza forzature, attraverso una sorta di “affirmative action”? E quanto è opportuno farlo?
CHAOUKI: È oltremodo opportuno, specie in un Paese come l’Italia dove, dentro e fuori dalle istituzioni, forze politiche xenofobe, talora violente, riscuotono ampio consenso. Va da sé che, per un’affirmative action, l’articolo 3 della Costituzione sarebbe un’ottima base di partenza.
BERGAMINI: La discriminazione positiva suscita sempre molto dibattito. E’ una misura in certi casi necessaria, ma il vero cambiamento deve essere culturale e non è detto che le misure di affirmative action siano in grado di crearlo. Il terreno su cui si deve intervenire è quello della cultura: dal canto mio, quindi, sono maggiormente favorevole a campagne mediatiche e di iniziative educative. A cominciare dalle scuole.