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Ecco la missione rivoluzionaria del Nuovo Centrodestra

Le aziende che producono soft-drink ci hanno abituato, da qualche anno, ad aggressive pubblicità mirate a venderci prodotti a calorie zero. Bevande, insomma, superdietetiche e, si presume, supersalutari. Contemporaneamente, le stesse aziende spendono milioni per portare sulle nostre tavole e nelle nostre case le versioni aromatizzate e in lattina delle nostre bibite preferite. Abbiamo, così, cola al sapore di vaniglia o di ciliegia, aranciata al limone, cappuccini in lattina. Ovviamente si tratta di alimenti ipercalorici e sconsigliati a chiunque voglia affrontare una dignitosa prova costume. I produttori di questi beni si comportano sul mercato con un atteggiamento apparentemente schizofrenico. Così non è, ovviamente, e loro policy aziendali sono perfettamente coerenti: puntano, sempre e in ogni caso, a migliorare il proprio «share», quindi le proprie vendite, quindi i propri profitti.

Un atteggiamento del genere è applicabile anche alla politica? O meglio: è pensabile che esistano partiti così spregiudicati da agire seguendo le non sempre lineari e coerenti regole del marketing? C’è chi ha, troppo spesso e con spirito ecumenico, sostenuto che un partito po- tesse comprendere al suo interno tutto e il contrario di tutto, generando in questi anni confusioni tali che ormai ogni movimento rappresentato nel Parlamento nazionale rispecchia nei fatti uno spaccato dell’intero spettro politico italiano. E ci sono posizioni – soprattutto sui temi cosiddetti «eticamente sensibili» – che riescono a raccogliere maggioranze trasversali e che trovano condivisione più tra esponenti di partiti diversi che all’interno delle compagini di provenienza. Non è detto che questo sia per forza di cose un dato negativo, ma è certamente un aspetto nuovo sul quale occorre riflettere con attenzione.

GUARDA CHI C’ERA CON ALFANO AL TEMPIO DI ADRIANO

Una parte consistente della scarsa fiducia che i cittadini hanno nella politica tradizionale – al netto di tutte le reazioni di pancia che la crisi economica e lo stallo istituzionale aiutano a esacerbare – nasce proprio dalla sensazione diffusa che il voto sia inutile, che la competizione elettorale sia una specie di reality in cui i concorrenti si sfidano a chi la spara più grossa e più bella e che nei talk show, sui giornali, sui social media, ci si possa permettere di dire qualsiasi cosa. Tanto, ormai, sono completamente saltati tutti i meccanismi di controllo e di sanzione e non esiste un vero processo in grado di delineare quel minimo di trasparente accountability di cui una classe dirigente seria avrebbe invece disperato bisogno.

Per riprendere credibilità e rialzare il dibattito politico al livello che gli compete occorre ripartire dai fondamentali, dai valori, da un carico ideale che la tattica diuturna ha troppo spesso messo in secondo piano e che la campagna elettorale permanente che abbiamo vissuto negli ultimi anni ha relegato ad argomento di discussione marginale. E invece i valori contano. Perché parlano di quello che siamo e di quello che vogliamo essere. Dicono quali compromessi siamo disposti a fare e quali, invece, non accetteremo mai. Spiegano, al di là dei tecnicismi esasperati tipici di ogni settore, qual è la visione complessiva che abbiamo del Paese e in quale società abbiamo l’ambizione di far crescere i nostri figli.

È frequente, e totalmente infondata, l’idea che l’ancoraggio dell’azione politica a valori e principi rappresenti un approccio conservatore nel senso deteriore del termine e che invece l’innovazione si possa e si debba perseguire mettendo in discussione tutto. Il lato più pernicioso di questo ragionamento è che molto spesso quelli che si autodefiniscono «innovatori» fanno della messa in discussione dei principi l’unica cifra reale del loro agire politico, consegnandoci così un modello di società per nulla evoluto, ma semplicemente reso arido dalla totale assenza di valori condivisi in grado di far crescere e progredire una comunità.

ANGELINO ALFANO E IL NUOVO CENTRODESTRA. LE FOTO

È importante, soprattutto per parlare ai giovani con chiarezza e sincerità, che un progetto che punta a essere una piattaforma in grado di rimodellare la forma politica dei moderati in questo Paese sappia delineare con determinazione e ostinazione quali sono i valori di riferimento su cui i suoi effetti si dovranno misurare. Solo così sarà possibile riacquisire credibilità e riconsegnare ai cittadini l’impressione che la politica non si sia ridotta solo a uno scontro per il potere, ma che possa ritornare a essere anche e soprattutto una dialettica tra visioni.
Anche in questo testo vi sono riferimenti frequenti ai temi eticamente sensibili. È un dato certamente positivo, ma sappiamo che è un terreno scivoloso che va affrontato con la giusta consapevolezza. Il tentativo pervicace di alcune élite minoritarie ma mediaticamente molto accreditate è stato quello di derubricare (secondo la loro distorta visione della scala delle priorità) il dibattito valoriale a una contesa tra laici e credenti. Dipingendo i primi come portatori sani di un magistero alternativo e spesso in contrasto con quello della Chiesa cattolica e i secondi come soggetti usi a ricevere ordini da Oltretevere. Un atteggiamento che, se non fosse ridicolo, sarebbe persino offensivo.

Va detto che questo tentativo è però riuscito perfettamente e che nessuno oggi in Italia riesce ad affrontare temi prettamente valoriali senza per questo essere etichettato come «teocon» o «teodem». È un circolo vizioso che va spezzato, riportando le questioni alla loro giusta misura e riaffermando con forza il valore della nostra tradizione nazionale e la difesa di un modello di società che, tra mille difetti e squilibri migliorabili, rappresenta l’unico in grado di far convivere la naturale vocazione comunitaria del nostro popolo con la doverosa necessità di aiutare, anche attraverso l’intervento statale, chi è rimasto indietro. Sostenere, di conseguenza, che tutto questo si regge – come si è sempre retto – su quella cellula prima della nostra società che si chiama famiglia non rappresenta una posizione conservatrice o «teo-oriented», ma una semplice affermazione di buonsenso in linea con il sentire comune. Un’affermazione che punta alla promozione dei valori che uniscono la nostra società e che garantiscono che siano preservate quelle istituzioni diffusamente riconosciute e unico motore possibile per il progresso anche economico di una nazione.

È un peccato che il pensiero di derivazione scientifica (liberale e progressista soprattutto) si ostini a non riconoscere quella che la Costituzione americana definirebbe una verità «di per sé evidente». Ed è quantomeno irrazionale che larga parte del mondo intellettuale continui a pensare di relegare tutto questo dentro i confini di un semplice dibattito dottrinale sul ruolo dei credenti in politica. Quello che la prossima generazione dei moderati italiani deve impegnarsi a far comprendere è che qui non sono in gioco tanto i legittimi valori di un blocco religioso, quanto il cuore e l’anima di un’intera nazione. Senza quell’anima rimane di noi il contorno geografico di una penisola, un territorio però privo di popolo e identità, rese ancor più labili dalle dinamiche sovranazionali che interessano anche il nostro Paese. È troppo poco per riuscire a spiegare il miracolo italiano degli anni sessanta, la grande vitalità economica degli anni ottanta e per farci sperare in un nuovo ciclo di crescita e stabilità.

L’ancoraggio a un quadro valoriale rigoroso ed esplicito dovrebbe essere per il centrodestra un atteggiamento naturale. E non solo per il futuro, ma anche e soprattutto per il passato. Il centrodestra ha costruito campagne elettorali e agende di governo combattendo su valori e ideali ben precisi. A partire dal nome stesso che il cartello elettorale si è dato, con quel richiamo mai superfluo alla libertà. Libertà dei singoli, delle comunità, delle famiglie. Nelle scelte educative, nell’attività imprenditoriale, nella naturale e spesso poco mediata vocazione antistatalista che non è mai stata nemmeno lontanamente paragonabile alla violenza dei movimenti estremisti e che si è sempre definita come richiesta di veder liberata la propria vitalità.

Il centrodestra di governo si è sempre battuto per questo. Forse non è riuscito a centrare ogni singolo obiettivo con la rapidità e con la pienezza di risultati che questo tempo richiede. Ma la critica che anche gli elettori moderati muovono ai propri rappresentanti è una critica in parte ingenerosa e dettata dall’eccessiva emotività con cui siamo abituati a vivere le vicende politiche di casa nostra. Al netto di una doverosa e onesta analisi che va fatta per capire cosa e quanto di meglio si potesse fare, va detto con altrettanta chiarezza che molti dei risultati ottenuti sono stati rivendicati con poca convinzione, nella certezza che il mantra del «fallimento di Berlusconi» e del «sono tutti uguali» avrebbe comunque, e in ogni caso, precipitato il dibattito in una gigantesca notte in cui tutti i gatti sono neri.
Quel che è certo è che c’era (e c’è) una parte politica che voleva più Stato e più regole e una parte politica che a quelle nuove regole e a quello Stato sempre più invadente – magari solo a parole – ha cercato di opporsi. E c’era (e c’è) una parte politica che ha sempre ritenuto le tasse bellissime e il benessere un peccato (con una pervicacia, questa sì, da Stato etico!) e una controparte che ha alzato la bandiera del «meno tasse per tutti». Esserci riusciti è un altro discorso e il tema va certamente affrontato, ma quella narrazione è stata solidamente nel solco della valorizzazione delle libertà personali e ha tratteggiato, non senza difficoltà, i contorni di un nuovo umanesimo e di una rinnovata fiducia nella capacità dei singoli, delle famiglie e della società che oggi noi abbiamo il dovere di non disperdere e da cui è necessario e doveroso ripartire.

Ripartire da qui significa innanzitutto rimettere in acqua i ferri di un’azione politica che torni a parlare al Paese e alla sua maggioranza moderata, convincendo nuovamente questi elettori della credibilità di un’offerta politica ispirata al senso comune e alla tradizione nazionale. I moderati in questo Paese rappresentano una maggioranza silenziosa e disorganizzata. Un grande mo- vimento popolare nel senso autentico del termine, poco legato alle liturgie della politica e, per questo, largamente invisibile a chi, attraverso queste liturgie, ha preteso di disegnare e raccontare il Paese. Ma questo popolo c’è, anche quando non si vede. E anche quando si divide, facendo palesemente gli interessi di una minoranza strutturale come quella rappresentata dalla sinistra italiana, lancia segnali inequivoci ai propri rappresentanti.

Anche a non voler considerare i tanti che alle urne non ci sono andati – e che sappiamo essere in percentuale maggiore uomini e donne del centrodestra –, se si sommassero i dati elettorali delle forze che a livello europeo si collocano nell’area di centrodestra e che, un tempo, costituivano la Casa delle Libertà (oltre al Pdl, vanno aggiunti i voti dei centristi, della Lega Nord, degli ex aennini), si otterrebbero scenari elettorali che rappresenterebbero il Paese per quello che realmente è: una nazione moderata che mai, nemmeno per un secondo, ha ritenuto credibile il centrosinistra e che chiede a gran voce che un blocco moderato, popolare, liberale e solidale, ancorato ai valori della tradizione, riprenda in mano il proprio destino e riscopra la propria vocazione maggioritaria.

Si tratta di scoprire l’acqua calda o di fare rivoluzioni copernicane? Certo che no. È tutto probabilmente già scritto nelle cose che abbiamo detto in questi anni e i nostri valori sono sempre quelli che dal 1994 a oggi, con coraggio e una buona dose di incoscienza tipica degli outsider, Berlusconi ha più o meno credibilmente incarnato. Direi, con un’evidente forzatura, che è più un problema di politics che di policies, che occorrerebbe cioè avere il coraggio di tenere saldamente fermo il quadro va- loriale e di aggiornare con convinzione il messaggio e le modalità del nostro agire nell’agone politico. È un tema che riguarda molto da vicino il partito – anzi: i partiti – e la sua modalità di raccogliere consenso tra l’elettorato e sul territorio.

Credo francamente che i modelli novecenteschi dei partiti pesanti siano definitivamente superati e che apparati costosi ed elefantiaci male si attaglino al tempo rapido e multimediale che stiamo vivendo. Questo non significa che i movimenti debbano essere inesistenti o trasformarsi in semplici comitati elettorali. Chi ha un minimo di dimestichezza con il mondo dei partiti americani sa bene che sono tutt’altro che leggeri, tutt’altro che privi di struttura, tutt’altro che comitati elettorali estemporanei. Rappresentano, invece, soggetti agili capaci di raccogliere consenso, di elaborare piattaforme programmatiche e di individuare in modo semplice e lineare le candidature alle varie cariche.

Non hanno, né vogliono avere, la pretesa di organizzare la società o di ricomprendere tutte le forme di elaborazione politica in senso lato. Sono anzi strumenti che accelerano e favoriscono la formazione di un network di cui si fanno forza quando necessario e che riconoscono come indipendente e complementare rispetto alla propria azione. Si tratta di reti composte da think tank, associazioni, sindacati, gruppi spontanei, attivisti online, sezioni locali. Un partito come aggregatore, quindi, e non come soggetto accentratore che tutto risolve in se stesso e tutto annienta.
Ragionare di aggregazione e di network porta alla mente, per associazione di idee, la rete per eccellenza: Internet. Il world wide web è un ambiente da cui un partito moderno non può prescindere: anche qui si decidono le elezioni e, sempre di più, chi saprà dotarsi di infrastrutture tecnologiche adeguate riuscirà ad acquisire un vantaggio competitivo in grado di creare maggioranze stabili e strutturali. In Italia se ne è molto discusso soprattutto dal punto di vista del fund raising: è elemento necessario ma non sufficiente a disegnare una strategia completa. Bisogna aprirsi alla rete per fare attraverso la rete, in modo più efficiente ed economico, quello che fino a oggi si è fatto off-line: dalla discussione su argomenti specifici alla mobilitazione delle coalizioni di scopo fino all’organizzazione di strumenti come le primarie.

Un nuovo umanesimo politico è possibile, proprio adesso che un ciclo sembra chiudersi e che molti rischiano di abbandonarsi allo sconforto. È adesso, nel bel mezzo della grande crisi, che serve il coraggio dei liberi e la convinzione dei forti.
Il quadro valoriale esposto nel libro, così come gli accenni ai temi da trattare e all’utilizzo delle nuove tecnologie, appaiono largamente condivisibili e possono rappresentare la base ideale su cui (ri)costruire il centrodestra di domani. C’è un tema che è rimasto sullo sfondo e che invece, a mio avviso, andrebbe analizzato con puntualità e chiarezza: come si organizzano queste idee? Quale sarà la forma politica che farà da veicolo a questa visione?
Perché anche i partiti hanno la necessità di tornare a essere coerenti: è impensabile, da un lato, teorizzare l’importanza di essere sussidiari e, dall’altro, calare costantemente sul territorio scelte assunte in altre sedi. È un errore che i partiti, di tutti gli schieramenti, hanno commesso molto spesso: discutendo a lungo di scelte bottom-up per poi proporre puntualmente soluzioni imposte dall’alto e che dimostravano tutta l’insofferenza delle cosiddette «classi dirigenti» verso enti intermedi, parti sociali, gruppi auto-organizzati. Una visione del partito e della politica di impostazione più totalitaria che liberale e che ha finito per atrofizzare pressoché totalmente tutti i luoghi di dibattito politico e di elaborazione culturale. Non è un caso se dall’inizio della prima Repubblica non una sola idea originale sia emersa in un contesto politico che dibatte, ora come allora, delle stesse questioni: dalla semplificazione del quadro istituzionale all’anomalia giudiziaria, dall’eccessivo costo del lavoro alle tasse troppo alte.

È necessario che questo progetto preveda anche un libretto d’istruzioni che dica con chiarezza su quali gambe cammineranno i valori declinati. Il rischio concreto è, altrimenti, di ritrovarci con una pregevole dichiarazione di principi che rischia di essere poco incisiva in un tempo rapido come quello in cui viviamo.
Personalmente non ritengo una contraddizione immaginare un partito in grado di coniugare la globalità di Internet con il forte radicamento territoriale. Chi vuole vincere le prossime elezioni, in un contesto generale caratterizzato da un’astensione strutturale crescente, dovrà dimostrare di saper mobilitare con efficacia la propria base e, quindi, di saper portare il messaggio migliore, all’interlocutore migliore, nel modo migliore. Questa capacità di colpire nel segno è resa più facile da Internet: ma tra il consenso espresso con un click e quello dimostrato nella cabina elettorale c’è quello che gli americani chiamano ground game, ovvero la capacità di portare al voto chi condivide determinate opinioni. Non è un mero gioco di mobilitazione o, meglio, la mobilitazione non è soltanto figlia di un’organizzazione più efficiente. È anche, e soprattutto, conseguenza di un approccio politico: un partito che sa ascoltare il suo territorio è un partito che da quel territorio saprà trarre il meglio. In termini di esponenti politici, di attivisti, di temi su cui discutere e combattere. E quindi di consenso. Il processo contrario, quello che parte cioè dall’appeal dei front-runners e dal mero dato nazionale, produce mezze vittorie e il rischio della disaffezione. Senza considerare il fatto che provoca una desertificazione delle classi dirigenti che si paga a caro prezzo in occasione di elezioni amministrative e locali.



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