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Elogio del non far nulla. Quanto erano belli i moschini che si mangiavano i televisori.

Magari il paese cambierà verso. E’ possibile. Avremo una politica più giovane e più risoluta. E chissà, magari, si faranno anche delle riforme incisive, alcune di queste, forse, riusciranno a uscire indenni delle spinte e controspinte delle tante sfumature di cui la democrazia, un po’ troppo conservatrice e moderata in cui si specchia l’italiano medio, si colora.

L’era digitale è tale ormai che le magnifiche sorti progressive sembrano non avere ostacoli al loro svolgersi. Un mondo nuovo, quello della perenne connessione al web, ci si offre. E il refrain, qui dalle nostre parti, è che se solo riuscissimo a interpretare al meglio la rivoluzione, quante cose potremmo fare, quanti benefici potremmo ottenere. Ecco.

Eppure. Eppure l’alammiccu, parola intraducibile che però è parente stretta della melanconia, mi piglia. Specie quando penso a certe cose del passato. Per dire i moschini che prendevano il sopravvento dell’immagine del televisore quando il segnale non giungeva all’antenna, rigorosamente analogico, nel migliore dei modi. Stabile. I moschini si divoravano i protagonisti delle immagini. Telegiornali, partite di calcio, film o telefilm. Quando l’etere aveva da fare i suoi capricci, non c’era possibilità per nessun canale di garantire il nitore dei segnali trasmessi. Audio e video. E così, generalmente, prima la voce si faceva mossa e intermittente, che pareva quasi una balbuzie. E poi i moschini, nona o decima calamità, moltiplicandosi sullo schermo con la progressione geometrica che è solo degli insetti, si divoravano i corpi dei personaggi. Il telespettatore sul divano, tra i cuscini morbidi che si facevano peggio, peggio ancora delle sabbie mobili, che all’epoca non aveva manco il telecomando scettro del potere domestico, rimaneva inerme a fissarli. Come un etologo rimaneva a guardarne il browniano operare. C’è chi vi vedeva immagini stravaganti; chi in quel caotico vorticare si improvvisava aruspice e le interpretava manco fossero tac di fegati animali. Altri ancora, fedeli agli studi classici ci vedevano quella diafana mistura di acqua e anice, quella attraverso cui Pavese, un altro amante dell’alammiccu che però lui chiamava magun, da Piazza Castello a Torino amava guardare la collina. I più però, senza alcun piglio classico o scientifico, si lasciavano andare. Accettavano che fosse un modo come un altro con cui Morfeo allentava le difese dell’ipotalamo per portarli poi con sé nel riposo quotidiano.

Ecco non si pensi che migliorare la qualità dei segnali ne migliori la qualità dell’interpretazione. Ci si salva sempre e solo grazie alla riflessione, anche post prandiale talvolta, quando in quella fase a metà strada tra il sonno e la veglia la mente sistema da sé il materiale raccolto tra quello già stoccato.
Non c’è uomo più saggio di quello che razionalizza l’uso della tecnologia, che non è sempre con gli occhi di fronte a un monitor: ora sul 21”, ora sul 13”, ora sul 15”. E che si può permettere di stare tante ore seduto su di un tavolo di quelli con tre piedi in un bar a non far nulla. Perché è padrone del tempo, ed è quindi dal verso giusto.

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