Noi riteniamo che, se la crisi è innanzitutto crisi di identità, essa non possa che essere considerata in relazione alla prospettiva di riforma degli assetti europei. Al termine del secondo conflitto mondiale l’Europa, per sfuggire alle resistenze dei residui dei nazionalismi e per comporre il conflitto tra federalisti e «sovranisti», è stata costruita seguendo un metodo empirico: fissare un obiettivo e, in nome di quell’obiettivo, operare il minor trasferimento di sovranità possibile per realizzarlo.
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Dal livello di trasferimento di sovranità praticato si sarebbe poi ripartiti per affrontare una tappa ulteriore e raggiungere uno stadio più avanzato della costruzione comunitaria.
LA SFIDA PIU’ AVANZATA E DISATTESA
Quel metodo ha funzionato finché era viva la comune consapevolezza di cosa fosse l’Europa, da dove venisse e su quali ideali si poggiassero le sue fondamenta. O, quanto meno, quali fossero i nemici della sua millenaria civiltà. Non a caso, nel momento in cui è finita la Guerra fredda è anche svanita gran parte di quella consapevolezza. L’allargamento necessario a evitare che la rottura del blocco dell’Est non abbandonasse in una sorta di limbo geopolitico alcuni Paesi privi di punti di riferimento, non ha certo facilitato le cose. Né ha giovato il fatto che vi fosse chi riteneva di poter cancellare con un tratto di penna radici, origini, tradizioni.
Non c’è dunque da meravigliarsi se alla sfida più avanzata che l’Unione si è posta di fronte – quella della moneta unica – non sia corrisposto un effettivo trasferimento di sovranità dalla dimensione nazionale a quella sovranazionale. Gli Stati hanno ceduto una leva fondamentale del loro potere so- vrano: la possibilità di gestire domesticamente la dimen- sione economico-finanziaria, regolando il valore della moneta, anche attraverso l’eventuale stampa-immissione sul mercato. A fronte di una così incredibile cessione di sovranità, però, non si è trovato chi la recepisse: né un’idea comune di cittadinanza, né istituzioni politiche, né tanto meno istituzioni finanziarie in grado di difende- re la neonata moneta. Per questo, la sovranità ceduta è evaporata. E quando la crisi economica, dopo aver attraversato l’Atlantico, è approdata sulle sponde del Vecchio continente, si sono rinfocolati i sentimenti anti-europei, i conflitti internazionali, si sono slabbrate le famiglie po- litiche continentali: come al tempo della Grande guerra. E oggi ci troviamo di fatto con una moneta «sgovernata» da diciassette Stati con divari che si allargano invece di rimarginarsi e steccati che si alzano invece di essere abbattuti.
LA RIFONDAZIONE DEL POPOLARISMO EUROPEO
È la consapevolezza di questa crisi che proietta naturalmente il nostro percorso verso la necessità di una rifondazione di quel popolarismo europeo che per primo scorse nella tradizione cristiana un antidoto alle ideologie novecentesche che avevano diviso e straziato il Vecchio continente. Quei principi e quella cultura hanno ancora qualcosa da dire al mondo contemporaneo. Noi vogliamo recuperarli. Vogliamo riproporli perché evidenziano anche come l’Europa non possa prescindere dall’interazione tra la sua dimensione baltica e quella mediterranea. Questa interazione comporta la sconfitta dell’unilateralismo e produce una felice contaminazione tra una concezione fredda della democrazia, basata sulla centralità delle regole, e una concezione calda, fondata invece sulla centralità della persona e delle reti di relazione. Ciò significa anche creare una relazione fra la tolleranza cattolica e il rigore calvinista, che non indulga in un’idea automatica del perdono, ma che non porti neppure a derubricare i ritardi economici in peccati dai quali non si può essere assolti.
L’EUROPA CONFEDERALE
Abbiamo già detto come la visione di un’Europa aperta comporti implicitamente il passaggio da un assetto più federale a uno tendenzialmente confederale. Il modello di Maastricht si fonda infatti su tre pilastri: uno è il pilastro federale, quello della Commissione; un altro è il pilastro intergovernativo; il terzo, anche se non è mai stato così esplicitamente denominato, è il pilastro confederale, la cui esigenza si è imposta alla luce dell’inesorabile peso degli Stati-nazione, dei limiti oggettivi della delega conferita alla Commissione e del ruolo crescente del Parlamento europeo.
Questa innovazione ha un preciso risvolto istituzionale che dovrà trovare concreta applicazione nelle riforme che si profilano ai piani alti della costruzione comunitaria. Tutta l’evoluzione del Trattato di Lisbona è infatti un’evoluzione verso il confederalismo. Quando si fa il presidente dell’Europa, che non è più il presidente della Commissione, di fatto si fa un presidente della confederazione, che risponde a un collegio di suoi eguali, di cui egli è il primus inter pares, con il limite tipico della confederazione che, si badi, è il principio dell’unanimità.
Il confederalismo comporta una modifica del rapporto fra le istituzioni: la Commissione perde importanza rispetto a quella che aveva nell’assetto federalistico iniziale. Diventa invece più importante il Parlamento europeo, perché il Parlamento è, nella confederazione, l’elemento che tiene insieme le diverse parti del sistema. E naturalmente, affinché l’organismo comunitario con- federale funzioni, sarà decisiva l’esistenza di un gruppo di Paesi-guida più importanti e «più uguali» degli altri. L’unica confederazione della storia ad aver funzionato è stata quella tedesca, che ha portato all’unificazione della Germania. Ma allora c’era un Paese, la Prussia, che, pur avendo gli stessi diritti di tutti gli altri Paesi confederati del 1860, era più grande e più potente degli altri e, così, ha saputo e potuto guidare il processo di unificazione.
CHI FA PARTE DEL MOTORE DELL’EUROPA?
A nostro avviso, quindi, dobbiamo progettare un sistema direttoriale con i Paesi più importanti, nella consapevolezza che si affermeranno il principio di maggioranza e la ponderazione del peso di ciascun Paese. Il vero problema in discussione è se nel cosiddetto gruppo di testa, il motore dell’Europa, i Paesi più autorevoli debbano essere tre, quattro o sei (meno di tre non potranno essere, in quanto ci sono comunque Germania, Francia e Inghilterra). Per l’Italia si ripropone la vecchia storia, che si ripete dai tempi della fondazione dell’Unione, quando gli Stati aderenti erano soltanto sei: la più piccola dei grandi o la più grande dei piccoli?
Ma se l’Italia si colloca nel gruppo di testa, come noi vogliamo, ci devono essere anche Spagna e Polonia. L’interesse dell’Europa è che i Paesi-pilota siano sei. Se si riuscisse a realizzare il «compromesso a sei», avremmo anche risolto il «problema chiave» per il vero avvio dell’integrazione politica dell’Europa: la difesa comune. Se, infatti, questi sei Paesi sapessero trovare un vero accordo, l’integrazione militare potrebbe diventare realtà. L’Europa potrebbe così non rassegnarsi al declino geopolitico; potrebbe decidere senza difficoltà in quale direzione orientare le proprie forze in un mondo in cui diventano sempre più protagonisti Paesi dal grande peso demografico. Se invece l’Europa non saprà trovare un minimo comun denominatore, i singoli Paesi europei – anche quelli più importanti – rischieranno di contare poco. Innanzitutto sul piano militare.
LO SGUARDO ALL’ITALIA
Noi segnaliamo che dall’ipotesi di riforma confederale europea discendono molte ragioni per riflettere sulla nostra forma politica e sul ruolo dell’Italia. La crisi economica mondiale, la particolare situazione economico- sociale del Paese, le esigenze di rilancio dell’economia e di rafforzamento della competitività del sistema e della coesione sociale, rendono oggi le riforme più attuali di ieri. Possiamo chiederci: se non ora, quando? Le riforme di oggi, però, non possono essere affrontate guardando al passato, ai trent’anni di fallimenti che datano a partire dalla Commissione Bozzi. Noi riteniamo che le riforme di oggi vadano fatte partendo dal presente e guardando al futuro. Questa crisi economica, infatti, sta durando più di una guerra mondiale novecentesca. Quando ne usciremo, il mondo non sarà più lo stesso. I compiti dello Stato non saranno più gli stessi. È necessario, dunque, comprendere le trasformazioni nelle quali siamo immersi e adeguare a esse le nostre istituzioni.
ECCO CHI C’ERA CON ALFANO ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO. LE FOTO DI PIZZI
Questa crisi ci ha insegnato un’altra cosa che non dovremmo più dimenticare, perché sbagliare è umano ma perseverare è diabolico. Un Paese in fase di espansione economica può anche permettersi istituzioni mal funzionanti; nei momenti di crisi e di recessione come quello che stiamo vivendo è invece un lusso che non ci si può consentire. Il costo economico e sociale di istituzioni inadatte ad assumere decisioni tempestive e a rappresentarle nella comunità internazionale è ormai insostenibile.
PAROLA D’ORDINE PARTECIPAZIONE
E se la crisi che dal 2008 ha investito l’Occidente da noi ha avuto conseguenze più pesanti che in altri Paesi, caratterizzati da un tessuto sociale e produttivo e da fondamentali economici meno solidi, ciò lo si deve non solo a handicap strutturali come un abnorme debito pubblico, ma anche e soprattutto all’incapacità del nostro ordinamento di arginare la crisi politica e impedire che tracimasse nelle istituzioni.
Di tutto questi gli italiani sono consapevoli, ma del percorso vogliono essere protagonisti. La parola d’ordine, dunque, è partecipazione: che non significa subordinare a Twitter o a Facebook il funzionamento delle istituzioni rappresentative così come oggi consentito di fatto dal nostro ordinamento (tentazione fatale di quanti, mimetizzandosi nella rete, stanno in realtà riproponen- do, adattata al nostro tempo, l’antica legge ferrea delle oligarchie), ma fare in modo che alla riscrittura delle regole, che incidono sul corpo vivo della nazione, gli italiani possano appassionarsi, tornando a considerare la politica materia viva e l’esercizio della politica funzione utile al bene comune.
Anche da questo punto di vista noi siamo convinti che le riforme oggi vadano affrontate in modo nuovo rispetto al passato, guardando quello che il futuro si appresta a mostrarci, tentando di rispondere alle domande che la crisi economico-sociale ci mette ogni giorno sotto gli occhi, modificando non soltanto i compiti delle istituzioni, ma anche i capisaldi della nostra stessa cultura politica.