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Fiat Chrysler: la politica batta un colpo!

In concomitanza con l’ingresso di Fiat nel capitale di Chrysler, usciva un volume, edito da Rosenberg&Sellier, contenente una lunga conversazione tra Valentino Castellani, Sergio Chiamparino, Cesare Damiano e Angelo Faccinetto e curata da quest’ultimo. Il titolo del volume “Detroit o Torino?”. Con tanto di punto interrogativo. Appunto.
Domanda attualissima a maggior ragione oggi che Fiat ha completato l’operazione iniziata, allora nel 2009, acquisendo l’intero capitale del terzo produttore di automobili degli Stati Uniti con sede in quella che fino a qualche decennio fa era essere considerata la capitale dell’automobile. Detroit infatti era sede anche di Ford e General Motors.

Qui in Italia, l’operazione, portata a termine da Fiat, non ha visto molte reazioni da parte della politica nostrana a testimonianza del grave momento di sbandamento in cui versano le classi dirigenti del paese. Eppure, in un momento in cui in molti mandano segnali di allarme per il processo di desertificazione del comparto manifatturiero in Italia, tale silenzio appare quanto mai fuori luogo. Molti politici dovrebbero rileggere il volume sopra citato per riflettere sulle domande che in esso sono poste e per le quali ancora oggi non c’è una risposta chiara.
Sarebbe opportuno riflettere su quanto e come l’operazione, al momento tutta finanziaria portata abilmente a termine da Marchionne, almeno dal punto di vista della famiglia Agnelli che non ha dovuto sborsare un centesimo della sua liquidità, rappresenti un’opportunità anche per la città di Torino e per l’Italia. Sarebbe opportuno capire e chiedersi, per non dire pretendere, se Torino rimarrà il cervello di Fiat-Chrysler conservando quelle prerogative tutte italiane di design, stile e ingegneria di produzione. O se invece, come dicono alcuni, il completamento dell’operazione Chrysler segna definitivamente lo spostamento del baricentro di quella che è stata per un secolo l’unica fabbrica italiana di automobili, verso Detroit e gli States.
Perché in questo secondo caso, se si legge l’intervista al sindaco di Detroit Bing contenuta a conclusione del volume, si scopre come può morire una città quando la linfa vitale che l’aveva irrorata scompare per sempre. Interi quartieri in “sold out”. Grattacieli vuoti murati per evitare lo sciacallaggio da parte di vandali. La popolazione che decresce con percentuali per anno sempre a due cifre. Oggi Detroit, che contava due milioni di persone, fa appena settecento mila abitanti.
Certo Torino non è Detroit. Nel tempo, proprio durante le giunte Castellani, prima, e Chiamparino poi, si è data altre vocazioni proprio per far sì che la città fosse meno rigidamente collegata alle sorti del gruppo automobilistico. Eppure anche se molte scelte si sono rilevate corrette e azzeccate: Torino città turistica, Torino città culturale, città dell’innovazione, città più teleriscaldata. Eppure Torino, con il ridimensionamento di Fiat, si è ridimensionata anch’essa. Perché la manifattura, l’automobile in particolare, smuove l’indotto più articolato possibile: dai servizi alle materie prime; dal design alla R&D generando ricadute sull’intero sistema pensante e produttivo dell’economia.

La politica troppo concertativa, troppo legata a logiche consociativiste ha guardato con sospetto Marchionne nel 2009 e oggi, di fronte a un’operazione che è oggettivamente positiva, almeno per il momento non sapendo come si attuerà in un piano industriale, rimane silente.
Dovrebbe invece trovare gli strumenti per accettare la sfida del manager canadese, nato proprio sull’altra sponda del fiume Windsor che bagna Detroit, e capire come svecchiare il mercato del lavoro e la sua contrattualistica ponendo le basi per uno sviluppo positivo di una Fiat globale anche in Italia.
Ci sono in ballo le produzioni delle auto di lusso del gruppo: Maserati e Alfa Romeo. Che potrebbero rimanere in Italia favorendo una ripresa del mercato del lavoro.
Sono ormai anacronistiche certe posizioni antagoniste nei confronti di Marchionne che furono della Lega e del Partito Democratico. Renzi, che in questi giorni cerca di dettare un’agenda politica al timido esecutivo di Enrico Letta, oltre che occuparsi della pur urgente legge elettorale e dei certamente rispettabili temi etici, dovrebbe pronunciarsi su come intende aprire un dialogo con la casa Torinese.
Anche perché non si può certo pensare di fondare la ripresa economica del paese solo sul comparto agroalimentare.

Se la Fiat abbandona l’Italia è quanto mai urgente creare le condizioni perché altre case automobilistiche vengano a produrre in Italia. Oggi ad esempio la General Motors ha un suo importante centro di ricerca all’interno della cittadella Politecnica a Torino.
L’esempio di Detroit, anche in questo caso, è illuminante. All’indomani del crollo dei tre giganti dell’auto, a Detroit si insediò Toyota che fece incetta del know how disponibile nel territorio con spiccata vocazione manifatturiera. Know how, non solo produttivo, ma anche di alto profilo ingegneristico. Un contesto, quello, per nulla dissimile a quello che si potrebbe reperire in Italia evitando di dover sussidiare a mezzo cassa integrazione enormi masse di operai e tecnici destinati alla ruggine.

Se la politica non batte un colpo, le conseguenze non saranno indolori per tutto il sistema paese che rischia di andare in testa coda. Gli effetti non potranno che essere radicali. Una forte emigrazione da una parte di chi ha i mezzi per farlo; la necessità di ripianare le casse sempre più indebitate di tante amministrazioni locali andando a recuperare le risorse dai diritti, fino ad oggi considerati intoccabili, come pensioni e sanità. Proprio come a Detroit.



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