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Fine della politica?

Pezzo pubblicato oggi su L’Arena di Verona e Brescia Oggi

Hanno atteso il verdetto della Corte come quegli allievi un po’ svogliati e poco preparati che a un certo punto s’arrendono, e dicono: “Senta, profe, ci aiuti lei a risolvere il problema”. E in punta di penna, gli Eccellentissimi della Corte Costituzionale hanno così vergato e depositato il compito reclamato: ventisei paginette di lezione per illustrare perché sia stata cancellata la tanto discussa -solo discussa e mai cambiata-, legge elettorale.

Con alcune prescrizioni al legislatore, come le ricette presso il buon farmacista, sui possibili rimedi per non costringere più la Consulta a intervenire con un’altra e ancor più severa bocciatura. Ma ce li immaginiamo ai tempi di Craxi, De Mita, Berlinguer e Spadolini (per non scomodare i precedenti di Moro o di Fanfani) i quindici giudici delle leggi spiegare al Parlamento come si fa la legge elettorale? Mai avrebbero osato. Perché mai sarebbe accaduto quel che è invece accaduto per tre legislature di fila per deputati e senatori: l’inadempienza politico-legislativa sulle loro stesse parole. “Cambieremo il Porcellum”, giuravano gli onorevoli, e già dare quel nome di battesimo all’atto sovrano per eccellenza rende l’idea del pasticcio combinato.

L’ultima supplenza della Corte Costituzionale, che nell’epoca della vituperata prima Repubblica avrebbe creato un conflitto politico-istituzionale senza pari, conferma che sul ponte del Palazzo ormai sventola bandiera bianca. Da tempo la politica ha rinunciato a far valere il suo volere, che poi è quello degli elettori. E allora nel vuoto di potere s’infilano tutti gli altri poteri, perché la vita della nazione, come lo spettacolo, deve continuare. E la Corte Costituzionale si trasforma in una sorta di terza Camera di pronto soccorso. E la magistratura con le sue inchieste ricorda alle Regioni che le spese pazze, fossero anche e soltanto mutande, non sono contemplate nell’esercizio delle pubbliche funzioni. E il presidente della Repubblica, tra i pochi che ancora sanno e cercano di “fare politica”, è costretto a battezzare tecnici al governo e soluzioni tecniche di governo per non mandare l’economia in tilt. E a loro volta gli economisti, i banchieri e chiunque capisca della materia indicano ai partiti diversi percorsi per uscire dalla crisi, per rilanciare la produzione, per incrementare l’occupazione. Tutti protagonisti, fuorché loro, i politici. Gli attori primi.

Parafrasando un celebre concetto e libro di Francis Fukuyama, il politologo americano che nel 1992 paventava la “fine della storia” (previsione e analisi non avveratesi, per la fortuna di noi tutti), qui siamo alla più immediata ma non meno preoccupante “fine della politica”. Nel senso che i governi e le legislature galleggiano senza sapere che fare, né dove andare. La politica ha paura di decidere, e perciò si barcamena, cambia idea nel volgere di una battuta, dimentica il programma presentato o lo ribalta. Spera, semplicemente, che passi la burrasca, intanto affidandosi alle soluzioni e alchimie altrui.

Ma il principio di responsabilità è il vessillo di una classe dirigente. Chi si assume un compito, specie se arduo, dà anche l’esempio. E mostra d’avere la consapevolezza del ruolo. Un politico che sbaglia una decisione, è comunque preferibile a un altro che non decide per non sbagliare. Il tempo della lunga supplenza deve finire e la politica dovrebbe ritrovare, se ne sarà capace, l’orgoglio di fare buone leggi e di servire i cittadini.

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