Lo sfruttamento dei giacimenti non convenzionali negli USA ha rappresentato la maggiore discontinuità nel mercato petrolifero degli ultimi decenni. Tra il 2008 e il 2013 la produzione nordamericana è cresciuta ad un tasso medio annuo del 5%, a fronte di un tasso negativo nel quinquennio 2003-2007 pari a -2%. L’aumento della produzione è dovuto allo sviluppo delle tecniche di fracking e horizontal drilling, che hanno reso competitivo lo sfruttamento dei giacimenti di tight oil.
PRODUZIONE IN AUMENTO E DOMANDA IN CALO
La capacità estrattiva statunitense si è rivelata superiore alle attese: secondo le ultime stime dell’Energy Information Administration, la produzione di crude oil continuerà a crescere nel 2014 arrivando ad una quota pari a 8,5 milioni di b/g, in gran parte sostenuta dai giacimenti di petrolio non convenzionale. La correzione al rialzo ha portato alla stima di un nuovo picco di produzione superiore ai 10 milioni b/g (pari all’attuale quota prodotta dall’Arabia Saudita) da raggiungersi nell’arco dei prossimi dieci anni. Tale quota renderebbe gli USA il primo produttore di greggio a livello globale. La crescita della produzione si aggiunge al rallentamento della domanda interna di prodotti energetici. Il rallentamento della crescita nei consumi si deve per lo più all’incremento dell’efficienza energetica nel paese.
LE CONSEGUENZE
Il mix di produzione in aumento e consumi in calo ha ridotto la domanda di importazioni di petrolio estero.
Già nel 2013 si è raggiunto un sostanziale superamento delle quote di crude domestico su quello importato (rispettivamente 7,7 e 7,4 milioni b/g a ottobre 2013, ultimo dato disponibile). Nel corso del 2014 si prospetta un consolidamento dell’avanzo della produzione interna sulle importazioni.
La maggior capacità estrattiva ha prodotto effetti anche sulle quotazioni del greggio, in particolare
contribuendo all’aumento dello spread tra il West Texas Intermediate (WTI) ed il Brent. Il primo, prodotto in Texas e prezzato nello snodo di Cushing, Oklahoma, rappresenta il benchmark per le quotazioni del greggio statunitense; il secondo è prodotto nel Mare del Nord ed è il riferimento per le quotazioni internazionali. Stime di breve periodo indicano per il 2014 quotazioni del WTI inferiori rispetto al Brent di una quota compresa tra i 2 ed i 6 USD per barile.
L’ALTERNATIVA
Uno scenario alternativo si aprirebbe in caso di miglioramenti nella produzione irachena, libica e nigeriana, o in caso di rimozione del blocco alle esportazioni iraniane. Tali eventualità comporterebbero pressioni al ribasso sul prezzo del Brent e dunque una riduzione dello spread. Anche l’ulteriore potenziamento degli oleodotti USA consentirebbe una maggior mobilità del greggio nordamericano9 e inciderebbe sul livello dei prezzi. Anche in questo caso il risultato sarebbe uno spread in contrazione, in un range di valori più stretto rispetto alle previsioni attuali, nell’ordine dei 3-5 USD al barile.
LE RIPERCUSSIONI SUI MERCATI INTERNAZIONALI
La differenza nelle quotazioni tra WTI e Brent ha rappresentato in primo luogo un vantaggio competitivo per le raffinerie statunitensi, le quali hanno potuto accedere a materie prime a costi inferiori rispetto alla concorrenza globale e ampliare le proprie capacità di esportazione.
Anche il contesto normativo USA ha contribuito in maniera determinante nel creare le condizioni di maggior competitività per le raffinerie nordamericane: la legislazione vigente non permette la libera esportazione del petrolio dagli Stati Uniti, salvo che verso il Canada (il quale tuttavia ne importa una quota minima). A legislazione invariata, l’aumento della produzione interna contribuirà quindi a mantenere i prezzi del WTI competitivi rispetto al Brent e preserverà il vantaggio delle raffinerie americane, che potranno continuare ad accedere a materie prime a costi inferiori.
CHI SUBISCE LA COMPETITIVITA’ STATUNITENSE
A subire il maggior impatto dell’accresciuta competitività statunitense sono le imprese europee: secondo alcune stime è possibile che la produzione europea subisca un calo tra i 500 ed i 700 mila b/g di produzione nei prossimi due anni per compensare le dinamiche di mercato sfavorevoli.
La crescente autonomia energetica americana ha avuto ripercussioni anche sui paesi esportatori di petrolio: tra il 2005 ed il 2012 il peso delle importazioni di greggio sul fabbisogno interno USA è passato dal 60% al 40% del totale. A subire gli effetti maggiori del calo nelle importazioni statunitensi sono stati i paesi OPEC: tra il 2008 e il 2012 le importazioni statunitensi dai paesi aderenti al cartello sono diminuite del 31% circa, mentre quelle dai paesi non-OPEC sono calate solo del 5,2%.
Tale evoluzione della domanda USA rappresenta una criticità per i paesi appartenenti al cartello petrolifero: per mantenere le proprie quote di mercato statunitense sarà necessario adeguare i prezzi del proprio greggio a quelli nordamericani pena la cessione di posizioni a favore dei produttori locali.
PROSPETTIVE FUTURE
Scenari di forti riduzioni dei prezzi sono improbabili nel futuro; prezzi al di sotto dei 70-80 USD a barile scoraggerebbero la produzione dai giacimenti non convenzionali e ridurrebbero l’offerta nordamericana. Più che nell’abbassare le quotazioni, quindi, l’apporto del tight oil sarà semmai quello di contenere le quotazioni internazionali, così come accaduto negli ultimi anni, durante i quali il boom di produzione USA ha consentito di rimpiazzare parte della minore offerta proveniente dai produttori tradizionali. Senza la crescita della produzione nordamericana, infatti, si sarebbe assistito a quotazioni del greggio sensibilmente più alte rispetto ai valori registrati.
Più rilevante sarà invece l’impatto sulle dinamiche dei flussi commerciali: la prospettiva dell’indipendenza energetica statunitense impone ai paesi esportatori tradizionali un consolidamento in nuovi mercati di sbocco con fabbisogni energetici in crescita, principalmente rappresentati dalle economie asiatiche, e condurrà ad una sostanziale ricollocamento dei flussi e degli equilibri commerciali rispetto al passato.