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Gli organigrammi di Renzi e Berlusconi

In un’epoca in cui il leaderismo ha assunto proporzioni abnormi – persino un minuscolo gruppo si sente decisivo se possiede un leader che riesca a farsi citare in televisione o su twitter –, parrebbe marginale qualsiasi tipo di organigramma che ogni formazione va ad assegnarsi. Si tende a ritenere che il leader si costruisca un organigramma con sottocapi o fedeli reiteratori del proprio pensiero, quasi esecutori passivi delle mutevoli posizioni che il condottiero va ad assumere nelle meschine schermaglie tattiche quotidiane. Certo, nella politica italiana oggi accade anche questo, che comunque costituisce un segnale del livello infimo in cui è scaduto il mondo politico e di quell’informazione irridente e irresponsabile che gli fa da coro. Ma l’organigramma, in un partito che ambisca a rappresentare una pluralità di interessi e di emozioni popolari, non può mancare di essere costituito da personalità che si assumano la responsabilità di una funzione di raccordo reale (e non astratto) fra partito e società nella sua varietà e nel mutare dei contesti generali.

Si rischia di fare confusione, non solo linguistica ma sostanziale, in tema di organigramma. Esperienze anche recenti possono indurre svariati partiti, diventati forti abbastanza da ambire ad essere o almeno a proporsi come forze di governo, a ritenere di doversi dotare di un numero di uffici sufficienti a corrispondere ad altrettante aree di competenza di dicasteri governativi. Così che, a un ministero corrisponda, nel partito, un responsabile autorevole che si occupi dei medesimi problemi oppure (specie se al momento si è all’opposizione) critichi severa-mente il ministro in carica per poterlo, al cambio di guardia, degnamente sostituirlo. In altre formazioni politiche i ruoli dirigenti vengono assegnati in relazione alle competenze dei singoli: e in corrispondenza col grado di rappresentatività territoriale che ciascuno può assicurare. Ma l’organigramma, anche se implica che i prescelti abbiano un sufficiente livello di preparazione specifica (e non solo di fedeltà al leader o di lunga militanza politica o di un rapporto col territorio stabile e positivo), va considerato anzitutto come una funzione, non come un titolo di merito, e men che mai come una sinecura permanente.

Alle origini del partitismo postfascista, il Pci disponeva di organigrammi connessi alla lotta clandestina (centro milanese, centro romano, centro meridionale mobile, centro di Lione). Quando Togliatti tornò dalla Russia, si preoccupò anzitutto di definire un organigramma nuovo che, pur non penalizzando sino all’espulsione dal partito pretendenti all’incarico di segretario generale, assegnasse, nel giro di aspiranti dirigenti centrali, dei ruoli differenziati (per l’organizzazione, il reclutamento, la rappresentanza territoriale, il finanziamento, ma soprattutto la propaganda, i rapporti con le masse popolari e sindacali e la conoscenza dei meccanismi elettorali), il tutto a una condizione irrinunciabile: che ogni responsabile d’ufficio non osasse contestare la linea del Migliore. Anche quando questa fosse poco comprensibile e contrastante con la tradizione del comunismo italiano e con questa o l’altra interpretazione del marx-leninismo.

Le nomenclature derivate nella sinistra italiana da quel Pci togliattiano, si sono sostanzialmente attenute in tutte le fasi successive, sino al Pd bersaniano, al medesimo modello. Il Pd di Renzi, invece, dopo una fase preparatoria ondivaga fra giovanilismo, radicalismo, confusionarismo, assemblearismo mantenendo costante l’obiettivo di rottamare l’antico modello di nomenclatura, si è infine attestato su una posizione diarchica rispetto al governo di Enrico Letta (cioè il vicesegretario del Pd bersaniano), dando vita ad una segreteria esecutiva che solo marginalmente prevede un parallelismo con i dicasteri governativi.

L’organigramma del Pd renziano è piuttosto incentrato su altre funzioni: un linguaggio più consono all’età mediatica nella quale siamo immersi e, dunque, alla comprensione delle emozioni dei più giovani; il ricorso a collaboratori più freschi e di bell’aspetto che sappiano comunicare fuori dalla fedeltà ideologista e affrontare spericolatamente i problemi presenti in una società tumultuosa, cercando di risolverli con decisione ferma e piglio risolutivo. In questo Renzi sta diventando più simile al Craxi del Midas, della rivendicazione della presidenza del consiglio in sostituzione del laico Spadolini e della richiesta di riforme strutturali, anche costituzionali, da decenni rimaste giacenti nei polverosi archivi del parlamento.

Il risorto Berlusconi, anche a costo di scontentare personalità che lo hanno sostenuto dopo la ribellione e il distacco dei centristi ministerialisti, preannuncia un organigramma solo marginalmente simile alla tradizione dei partiti di governo e più aperto al pluralismo politico postideologico. Resosi conto della improduttività di incarichi formali da altri concepiti come passaggi obbligati per succedergli alla guida del centrodestra, il leader di Forza Italia ha immaginato un organigramma mobile, non rigido né definitivo, nel quale siano però precise le funzioni: creare basi territoriali con circoli permanentemente attivi, che valgano, al contempo, al recupero dei voti andati persi per strada e a conquistarne dei nuovi; ad una riqualificazione politica tutta incentrata sulla libertà e i diritti inalienabili della persona; ad una selezione di una futura classe amministrativa, che non si può improvvisare; alla scelta di parlamentari rappresentanti del e sul territorio; alla valorizzazione dei giovani come anche – e questo è un dato inedito rilevante – alla rivalutazione degli anziani e della loro esperienza, in una società in cui, oltre tutto, gli over 65, i senior, costituiscono la netta maggioranza del corpo elettorale.

In tal modo Forza Italia si trova a disporre di un organigramma più funzionale di ogni altro partito rispetto alla realtà sociale. Non insegue le corporazioni – in buona misura contrarie da sempre al berlusconismo e ai cambiamenti di sistema –, ma dà a tutti i comparti della società la titolarità del diritto a crescere nella libertà e nella pluralità; insegnando anche loro criteri di gestione che non contrastino con una concezione liberale della comunità e delle relazioni internazionali. Un punto non si avverte bene nell’organigramma di Forza Italia, anche se lo si ritiene esistente sottotraccia: la preparazione di specialisti centrali e locali dediti al controllo dell’esercizio del voto e delle tante manipolazioni che se ne fanno: dalle sezioni del piccolo comune sino all’aula di Montecitorio ricorrendo ai pizzini, come venne documentato nel 2006 nelle elezioni del capo dello Stato.

È, dunque, anzitutto la percezione esatta delle funzioni spettanti ad un partito politico moderno – né ideologico, né soltanto elettoralistico; intriso di cultura politica e abile nella comunicazione; strutturato ma non burocratizzato – che può smuovere anche radicate incrostazioni, snellire gli organigrammi senza renderli evanescenti, diminuire i costi organizzativi e propagandistici della politica e renderli più accettabili alla gente comune.



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