Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, pubblichiamo l’articolo di Marcello Bussi uscito oggi sul quotidiano Mf/Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi.
Va bene, il presidente della Bce Mario Draghi ha detto di non vedere rischi di deflazione in Eurolandia. E il numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann, avrà il mal di pancia fino a quando la Bce non comincerà ad alzare i tassi d’interesse, ora al minimo storico dello 0,25% perché il ricordo dell’iperinflazione nella repubblica di Weimar è ancora troppo vivo.
Ma è paradossale che i mercati ieri abbiano accolto senza batter ciglio un dato che se fosse uscito in Italia avrebbe scatenato grandi preoccupazioni. Ieri l’Ufficio federale di statistica ha annunciato che a giugno l’indice dei prezzi al consumo su base armonizzata (calcolato quindi secondo i metodi dell’Unione europea) in Germania è sceso a gennaio dello 0,7% rispetto al mese precedente. Una marcia indietro così forte non se l’aspettava nessuno. Certo, su base annua i prezzi sono ancora in salita dell’1,2%, meno dell’atteso +1,3%. Ma subito Barclays ha rivisto al ribasso le stime dell’inflazione in Eurolandia nel 2014 allo 0,8% dallo 0,9% (e oggi verrà diffuso il dato preliminare di gennaio). Un livello che è meno della metà dell’obiettivo fissato dalla Bce, il 2%. Sembra quasi che il pericolo deflazione sia ignorato di proposito. Eppure il -0,7% su base mensile dimostra che nemmeno la Germania è fuori pericolo, anzi. Secondo logica, anche Weidmann dovrebbe essere favorevole a nuovi allentamenti della politica monetaria della Bce.
E invece no. L’allarme lanciato nei giorni scorsi a Davos dalla direttrice generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, è stato accolto dalle autorità monetarie di Eurolandia con un’alzata di spalle: «Dobbiamo essere estremamente vigili», aveva detto la Lagarde. «Il rischio deflazione si concretizzerebbe se ci fosse uno shock per quelle economie dove i tassi d’inflazione sono ben al di sotto dell’obiettivo. Credo che nessuno possa contestare che Eurolandia si trovi proprio in questa situazione».
E lo shock non si è fatto attendere, con la fuga di capitali dai Paesi emergenti iniziata giovedì scorso. I conti sono necessariamente approssimativi, ma si stima che a partire dalla bancarotta di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008, a seguito delle politiche monetarie superaccomodanti delle banche centrali dei Paesi sviluppati, si siano riversati sui mercati emergenti ben 4.000 miliardi di dollari di capitali esteri. Di questi, secondo il Fmi, 470 miliardi sono direttamente legati alla stampa di moneta attuata dalla Fed. Ora che la banca centrale Usa ha cominciato a ridurre gli acquisti di asset, che dovrebbero essere azzerati a ottobre, è inevitabile che parte dei capitali investiti nei Paesi emergenti torni a casa o comunque sia diretta verso altri Paesi sviluppati (non per niente ieri le aste dei Btp a 5 e 10 anni hanno avuto successo, con tassi in calo). È però forte il rischio che la ritirata si trasformi in una vera e propria rotta, costringendo le banche centrali dei Paesi emergenti ad alzare ancora i tassi d’interesse, mossa che porterà a un rallentamento delle rispettive economie. La conseguenza potrebbe essere un ribasso dei prezzi delle materie prime, cosa che aumenterebbe le pressioni deflazionistiche sui Paesi sviluppati. La Cina, inoltre, potrebbe essere tentata di svalutare lo yuan, anche per rispondere al forte indebolimento dello yen giapponese. Il tutto mentre l’indice Baltic Dry dei costi del trasporto marittimo e dei noli è sceso del 50% rispetto ai massimi toccati nel mese di dicembre, segno che i trasporti di derrate alimentari e delle materie prime non liquide (esclusi quindi petrolio e prodotti chimici) sono in diminuzione. Ma soprattutto, ormai, i mercati emergenti costituiscono il 50% dell’economia globale e quindi non sono mai stati così influenti sulle sorti dei Paesi sviluppati.