In una società che apprezza più il prezzo che il valore e più il titolo che il contenuto, era inevitabile che la proposta di Matteo Renzi sul lavoro venisse discussa soprattutto per il suo nome anglicizzante, il “Job act”.
Non siamo d’accordo, anche se parentele geografiche e remotissime ascendenze ideologiche ci farebbero più sensibili alle ragioni del buon Achille Starace, rinverdite dal ministro transalpino Toubon.
Il problema, secondo noi, è esattamente inverso: non l’eccesso di Inglese, ma la sua penuria. Con il loro talento per i giochi di parole e il loro gusto per essere trendly, Matteo e i suoi spin doctor avrebbero dovuto fare uno sforzo in più.
Sarebbe servito un Jobs act, e non nel senso dell’omaggio di circostanza al “lavoro” che è diventato “i lavori”, ma nel senso di Steven Jobs, del suo invito stanfordiano ad essere e rimanere “affamati e folli”.
Dal neo segretario del Pd e dalla sua facondia ci saremmo aspettati qualcosa di più e di meglio che un nastrino colorato e una spolveratina di modernità sull’apparato concettuale del Novecento.
Intendiamoci: è certamente sbagliato credere che la contemporaneità consista nel fare piazza pulita di quelle fastidiose anticaglie che sono i diritti e le tutele; non riteniamo sbagliata ed anacronistica la difesa dell’articolo 18 perché ci piace un’idea delle relazioni industriali basata sulla possibilità di licenziare.
Il nostro è il grido di dolore degli esclusi, di quei giovani italiani che, come i perieci e gli iloti dell’antica Sparta, sono nel mondo del lavoro i figli di un Dio minore, quelli che un fossato invisibile separa dalla cittadella dei garantiti, dell’impiego pubblico inamovibile, del lavoro privato iperprotetto.
La perdita di potere contrattuale, di salario, di qualificazione sopportata dalla nostra generazione è lo specchio di un Paese fermo, nel quale si perpetua da vent’anni una sorda guerra di trincea fra la marea montante del bisogno e le fortificazioni degli arroccati. Su questo immobile fronte Renzi, come Remarque, non ci annuncia niente di nuovo.
Una timidezza che può essere anche comprensibile, alla luce dell’azionariato di riferimento del suo partito, a cominciare dalla Cgil; ma che non è una buona notizia né per il resto del Paese né per quanti continuano invano ad attendere la svolta blairista che tolga la sinistra italiana dalla sua perenne condizione di ostaggio del massimalismo.
Il ben poco del Job act, tra miope difesa dell’esistente e rituale invocazione di utopie irrealizzabili non è lo strumento per rimettere in moto l’ascensore sociale di questo Paese, per ricostruire il patto fra le generazioni, per rimettere al centro della scena la creatività, l’intraprendenza, l’innovazione.
Magari servirà a tenere unito il Pd e garantire la convivenza fra Landini, Fassina e Giorgio Gori. Ma se l’obiettivo era questo e soltanto questo, non era il caso di tenersi D’Alema?
Jobs act, l’inglese che manca
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