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La forza di Renzi ha due debolezze

Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sulla Gazzetta di Parma

Non sarà un ultimatum, ma molto gli somiglia. Per chiudere il cerchio delle alleanze e soprattutto evitare il Vietnam sulla legge elettorale in Parlamento, Matteo Renzi si cala l’elmetto e avverte i naviganti: se salta l’accordo, “salta la legislatura”. Lui parla a nuora (cioè a quanti sollecitano l’introduzione delle preferenze e soglie più basse di sbarramento e più alte per il premio di maggioranza), perché le tante e stralunate suocere nel Pd intendano. Non sarà tollerato, dunque, che la componente minoritaria nel partito, ma maggioritaria alla Camera dei deputati, dove il testo giace ed è all’esame in queste ore, disfi la tela dell’intesa con Silvio Berlusconi a colpi di emendamento.

Penelope stia alla larga dall’Italicum, ammonisce il battagliero fiorentino. Sul punto Renzi sa di giocarsi sia la buona reputazione che s’è guadagnato con le primarie e fra gli italiani, sia un modo nuovo di esercitare il nuovo ruolo di segretario. Ha bisogno di far vedere che, con lui, la musica è cambiata: il segretario del Pd è anche il leader del Pd. Viceversa, partire con una disobbedienza di massa alla prima e così rilevante riforma da troppo tempo inutilmente perseguita, sarebbe come rievocare il fantasma dei 101 parlamentari che nel segreto dell’urna impallinarono la salita di Romano Prodi al Quirinale. Il disastro.

Il monito di Renzi ha la forza di due debolezze. La prima è del suo principale interlocutore, il Cavaliere caduto da cavallo, al quale non resta altro margine di manovra, se non di rispettare alla virgola il compromesso raggiunto. Non può alzare alcuna posta, e le carte le dà il giovanotto e dirimpettaio. La seconda debolezza è dell’esecutivo, nel quale il suo capo, Enrico Letta, è stato costretto a prendere ad interim il dicastero delle Politiche agricole appena abbandonato per protesta da Nunzia De Girolamo (“il governo non ha difeso la mia onorabilità ”), dopo le polemiche per l’inchiesta sulla Asl di Benevento e la mozione di sfiducia presentata dai Cinque Stelle. Non poter azzardare neanche un rimpasto, e subito, dà l’idea non solo della prudenza del giovane Letta, ma anche dell’effetto già provocato dall’amico-antagonista. Quel Renzi che ripete d’essere disinteressato a qualsiasi ricambio nel governo. “Pratiche da prima Repubblica”, le ha liquidate. E così Enrico Letta deve fare buon viso a cattivo gioco, sostenendo che se passa questa riforma elettorale non a lui tanto congeniale, “sarà un bene per l’Italia e per il governo”. Di fatto è una previsione corretta.

A prescindere dal contenuto che comunque può essere limato senza essere stravolto (per esempio prevedendo anche delle primarie di collegio per lenire la ferita della mancanza di preferenze), l’eventuale approvazione di una riforma inseguita da tre legislature metterebbe l’esecutivo al riparo da agguati di altro genere, e consacrerebbe il sindaco di Firenze come l’uomo della svolta. Qualcosa del genere capitò, in altri tempi e contesti, a un altro irregolare, sia pure più timido e tiepido: Mariotto Segni da Sassari. Pur inviso alla partitocrazia dell’epoca, a colpi di referendum questo democristiano anomalo riuscì a seppellire il sistema proporzionale e a introdurre l’elezione diretta del sindaco, e poi del presidente di provincia e poi del cosiddetto governatore nelle regioni. Una rivoluzione tranquilla. E chissà che Renzi, il rinnovatore di oggi, portata a casa, come deve, la legge elettorale, non apra la porta all’elezione diretta del capo dello Stato, con la quale la parabola della grande riforma sarebbe compiuta.

Ma intanto il leader del Pd deve preoccuparsi delle minuzie, di come salvare la pelle dell’accordo alla Camera. E la minaccia ai suoi e a tutti di inevitabile voto anticipato in caso di brutte sorprese, può contribuire all’obiettivo: far vedere che fa quello che dice. In tempo di anti-politica dilagante non sarebbe un dettaglio. Anche se lo stesso atteggiamento decisionista e ammonitore Renzi farebbe bene a tenerlo sul tema del lavoro, della ripresa, delle troppe tasse, dell’evasione insopportabile, dei privilegi inauditi. Cose di gran lunga più importanti e “sentite” dai cittadini: l’Oeconomicum dopo l’Italicum.

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