Matteo Renzi mi è simpatico, e non solo per solidarietà generazionale (in senso lato, perché io non sono un quasi quarantenne). Mi piace quel certo suo gianburraschismo irriverente, i rossori e i travasi di bile che provoca nel Politburo, la sua capacità di osare. Diciamo la verità, quell’invito al Nazareno fatto a Silvio Berlusconi sembrava fatto apposta per fare impettire i vecchi soloni un po’ sfiatati alla Rodotà e dare la sensazione che si facesse sul serio. Come nella canzone di Venditti, “le partite stavolta sono proprio vere”, e vai con la proposta chiusa ed impegnativa per tutti, con l’accordo napoleonide fra leader e poi “l’entendence suivra”, i colpi di teatro sul programma di governo in un foglio di Excel (anzi, uno spreadsheet).
Tutto bello, colorato ed effervescente. Però, proprio come accade quando lasci troppo sfiorire certe bibite, il retrogusto finale è sul rancido. L’Italicum, come è stato definito, è un polpettone di difficile leggibilità e digeribilità. Personalmente considero abbastanza stucchevoli e fasulle le attese miracolistiche sulla legge elettorale: non è sulle alchimie normative che si può inventare una stabilità che non c’è o un bipartitismo al quale gli elettori si mostrano riottosi.
Tuttavia ci si poteva attendere qualcosa di più e di meglio di una sonora pernacchia ai giudici della Corte Costituzionale. Non c’è bisogno di essere fini giuristi per capire che il progetto renziano non ovvia in modo convincente alle censure della Consulta sul Porcellum. È vero che i giudici non hanno sconfessato ogni ipotesi di premio di maggioranza, ma l’idea che un partito o una coalizione prendano ogni due deputati eletti nelle urne un deputato “di bonus” non mi pare granché democratico; quanto poi alla mancanza delle preferenze, è incommentabile.
Anche qui, è vero che le liste bloccate non sono escluse a priori dai magistrati della Consulta, ma è tutt’altro che scontato che un sistema su base “provinciale o subprovinciale” sia immune dai loro fulmini, tanto più se, a differenza di quanto avviene nel sistema spagnolo, i resti sono recuperati a livello nazionale. In pratica continuiamo a considerare il voto un messaggio in bottiglia affidato alle acque, o meglio alle amorevoli cure dei partiti (rectius, dei “leader”).
Naturalmente, ove non bastasse una soglia di sbarramento inutilmente afflittiva ed una corsia privilegiata per le coalizioni di dubbia costituzionalità, se ciò malgrado quei testardi degli Italiani si incaponissero nell’attuale mènage à trois, ecco il colpo di prestigio dello “spareggio”. Non è il ballottaggio per l’elezione dei sindaci, visto che a quel che si capisce non sono previsti apparentamenti di secondo turno; non è il doppio turno alla francese perché non si misurano dei candidati; è un misterioso ircocervo in cui si confrontano le “coalizioni”, che continuano ad essere una illustre inesistenza, visto che la Costituzione non prevede il vincolo di mandato né l’elezione diretta del premier né tantomeno l’inviolabilità dei patti politici.
Si può dire che in quarant’anni l’Italia è passata dalla strage dell’Italicus a quella dell’Italicum. Molto meno cruenta, ma ugualmente orribile.