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Lampedusa è anche a Berlino, un resoconto etnografico

In questo breve articolo voglio parlare di un tema che in questo ultimo periodo mi sta interessando molto. Mi riferisco alla questione delle “migrazioni”. Questo fenomeno, come ci ricorda il prof. Massimo Livi Bacci dalle pagine di neodemos.it, non è affatto un qualche cosa di nuovo e di emergente, anzi, “l’umanità si è diffusa e plasmata con le migrazioni”. Si tratta di un qualche cosa di antico e che è da sempre parte della storia degli Uomini.

Sul fenomeno delle migrazioni si è detto di tutto, spesso a sproposito. Conosciamo tutti la retorica dell’altro come nemico. La contrapposizione che si genera dalla separazione “noi/loro” è anch’essa frutto di una prassi tipicamente umana. La psicologia sociale ce lo ha spiegato bene: provate a dividere un gruppo di amici in due fazioni, per esempio “guardie e ladri” e vedrete come si svilupperà presto una tensione formidabile tra gli uni e gli altri, vedrete come i ruoli associati al gioco prendano il sopravvento rispetto alla vita reale. La divisione è connaturata all’uomo come l’unione. L’ambiguità è lo stato normale delle  cose nella vita degli esseri umani.

Non voglio andare sul generale totale, meglio tornare coi piedi per terra e discutere di cose più concrete. Per esempio: Lampedusa, su cui ho già scritto in questo spazio.

Lampedusa non è un problema italiano, bensì europeo. La frontiera non è con l’Italia, ma con l’Europa. E anche sul concetto di “frontiera” dovremmo tornare a ragionare un po’. Sono migliaia i migranti che ogni anno approdano sulle coste dell’isoletta siciliana, molti sono quelli che non ce la fanno e che perdono la vita in mare. Non se ne parla molto, le televisioni si precipitano sull’isola per raccogliere il pathos del momento, amplificarlo ed esasperarlo per tradurlo poi in moneta sonante che viene venduta a colpi di pubblicità. Il tempo di uno show e poi i riflettori si spengono di nuovo.

Per fortuna c’è qualcuno che non smette di osservare e monitorare questa situazione. In questo caso il blog Fortress Europe svolge un ruolo importante.

Su quelle coste ci sono le speranze e le aspettative arenate di migliaia di esseri umani. Chi se ne preoccupa? Cosa si è fatto per aiutarli? Poco o niente.

In questo spazio voglio proporre l’analisi di un piccolo (quantitativamente) caso di migrazione che interessa l’Europa e non solo l’Italia.

Resoconto

Il 18.01.2014 sono andato a far visita, come Presidente del PD Berlino, al campo abusivo dei rifugiati presso Oranienplatz. Avevo in precedenza preso contatti con alcune ragazze che si occupano dell’assistenza ai “rifugiati” e mi avevano poi introdotto nel campo, indicandomi un contatto.

L’accoglienza che mi è stata riservata è stata pessima. Quando mi hanno visto arrivare e mi sono presentato, hanno subito reagito con ostilità e diffidenza. Chiedo se qualcuno parla italiano o inglese e uno di loro, mi risponde (in italiano) dicendo “no, non parlo italiano”. Cerco di spiegare che sono venuto per ascoltare le loro storie e per cercare di aiutarli, mi rispondono “chi sei? Italiano? Politico? Non ci interessa”. Chiedo del ragazzo che doveva aspettarmi all’ingresso del campo, ma loro fingono di non sapere chi sia, c’è ostilità forte e lo percepisco in modo prepotente. Il ragazzo che mi rivolge la parola mi dice che di italiani conosce solo “Cavour” e ride.

I primi cinque-dieci minuti non sono stati positivi. Provo a chiedere ad altri, ma nessuno vuole rispondermi. Dopo poco mi sento chiamare era il contatto che aspettato.

Il ragazzo si chiama V. mi saluta dandomi la mano e mi fa presente che per gli altri è difficile poter parlare con un italiano, perché molti di loro hanno risentimento e rabbia nei confronti degli italiani. Mi fa strada e mi invita ad entrare in una delle tende del campo, quella in cui dorme.

La tenda è occupata da 6 persone, i letti sono ricavati da materassi raccolti nell’immondizia, ci sono sedie e sgabelli, tappeti stracciati e un fornellino a gas proprio nel mezzo della tenda. Sono silenziosi, mi guardano entrare e non dicono niente.

V.mi fa accomodare e mi dice che è felice che un italiano si sia interessato di loro. Gli domando allora di raccontarmi la sua storia e V. inizia il racconto, drammatico e terribile. Mi dice che a Berlino c’è un pezzo di Lampedusa, come ad Amburgo. Ci sono 200 persone insediate a Berlino, un migliaio ad Amburgo. Nel campo di Oranienplatz ci sono solo gli uomini, un centinaio forse, non li ho contati e lui non sa darmi la cifra esatta. Forse sono di meno. Le donne e i bambini, o i ragazzi, vivono in una scuola occupata abusivamente nella zona di Kottbussertor, poco distante della piazza del campo rifugiati abusivo.

Lo sguardo di V. è perso e non comunicativo. La sua tragedia parla da sé. Sono in silenzio mentre mi racconta dei bombardamenti e delle perdite. Lavorava in Libia da 10 anni quando è iniziato l’attacco dell’Europa (lui dice così, L’Europa ci ha attaccati) alla Libia. Molti dei suoi conoscenti sono morti, ha perso anche la moglie. Non sa se è viva o se è morta. Dice che nel tragitto verso Tripoli si sono persi a seguito dei bombardamenti.

Mi racconta che è riuscito, assieme alle persone che sono ora lì con lui, a raggiungere Lampedusa e di esserci rimasto solo tre giorni. Di essere stato mandato a Milano, poi a Cremona per poter compilare dei moduli in questura. Ha ricevuto 500 euro, firmando la dichiarazione di ricezione del denaro e un documento del governo italiano in cui ha il permesso di muoversi. Si è quindi spostato a in Germania, nella speranza di trovare un lavoro dato che, come gli è stato riferito in Italia, la crisi ha reso tutto difficile e lavoro da noi non ce ne è.

V. è arrabbiato, ma il suo sguardo è fermo, immobile. Mi sconcerta, perché vedo nel suo viso una vita spezzata. Mi dice che si trova lì, ma la sua mente non c’è. Non è concentrato, non riesce a studiare la lingua, non riesce a fare niente. La sua mente è ferma agli attimi delle bombe e della fuga. Non piange, è composto, calmo nella sua spiegazione: assente.

I ragazzi nella tenda non vogliono essere lì ad ascoltare, si alzano ed escono. Uno di loro mi dà la mano e mi saluta prima di uscire. Restiamo da soli. Mi dice “a me non interessa se sei italiano o tedesco, mi interessa che non siamo ignorati. L’Europa ci ha bombardato, ha distrutto le nostre vite e ora siamo qui per ricominciare non potete ignorarci” mi spiega in inglese “non chiediamo niente di più che poter lavorare, rimanere qua, ricominciare”.

Annuisco, non ho le parole per esprimermi. Vorrei dire “capisco” ma sarebbe una menzogna, non ho provato l’esperienza della guerra, della violenza e della morte come queste persone. Gli dico che sono lì per ascoltarli e per cercare di aiutarli, con il poco che possiamo fare.

La tenda ora è vuota e noi restiamo un istante in silenzio. I suoi occhi fissano il vuoto, poi mi dice: “quante altre guerre farete, quante altre guerre ci saranno? Oggi è toccato a noi, domani potrebbe toccare all’Europa. Rifiutano noi oggi, e domani qualcuno potrebbe rifiutare loro”.

Le parole mi attraversano e resto in silenzio. Mi parla della fatica di aver vissuto in quel Paese, di essersi integrato, di aver lavorato e poi di aver perso tutto. Di essere arrivato in Italia con la speranza di trovare aiuto e di essersi invece trovato a Berlino a vivere di elemosina e in condizioni disumane.

La ragazza che mi ha dato il contatto di V. è sola in questa impresa. Il ragazzo mi dice che lei li aiuta in ogni modo, compra i biglietti, porta del cibo e dei soldi, organizza raccolte fondi e fa visita ogni giorno al campo. In quel momento lei non c’è ci sono solo io.

Dice che non se ne andranno, fino a quando non otterranno il permesso di lavorare e di poter vivere una vita “degna di un essere umano”. La sua testimonianza mi fa sentire impotente, perché nel dire “vorrei aiutarvi” ci metto tutta l’onestà e la buona volontà, ma poi non so nel concreto cosa rispondere.

Mi accompagna fuori dalla tenda, mi ringrazia di essere andato e mi chiede un biglietto della metro per potersi spostare. Meglio, dice, un abbonamento. Mi parla ancora, facciamo un pezzo di strada assieme e mi dice “L’Europa ha creato il problema, ma l’Europa non trova le soluzioni” dice che quello che è valido in Italia non è riconosciuto in Germania: sacra verità.

La visita al campo di “Lampedusa a Berlino” mi impone di dire che dobbiamo fare qualche cosa. L’Europa, che V. cita di continuo è in realtà un’entità assente. Manca un coordinamento sovranazionale, una politica comune e un’armonizzazione delle legislazioni. Occorre trovare un accordo rapido su temi di così grande rilevanza come le migrazioni, specie se dovuti a motivi come la salvaguardia della propria vita, la fuga dalle guerre e dalla povertà.

Il campo di Oranienplatz esiste da 1 anno e 2 mesi. 200 persone vivono grazie alla solidarietà spontanea degli abitanti e a livello istituzionale non è stato ancora trovato alcun accordo. Il Senato di Berlino si riunirà a breve per decidere le sorti di queste persone, sembra quasi sicuro un rimpatrio. Abbiamo 200 persone, tra cui minori (che non ho visto personalmente), che hanno ottenuto dall’Italia un riconoscimento di “emergenza umanitaria” e un documento per spostarsi in Europa (con 500 euro annessi di invito ad andarsene) e la Germania invece non li riconosce, non considera valide le modalità con cui si sono realizzate le cose e ha bloccato ogni procedura di richiesta di asilo.

Continuerò a seguire questa vicenda nella speranza di trovare una soluzione che restituisca dignità a queste persone e diritti. Intanto è importante, credo, non abbassare l’attenzione sul fenomeno discusso: l’Europa deve agire assieme per trovare soluzioni praticabili, non è né una questione della sola Italia né della sola Germania. Siamo Europa agli occhi degli altri, e non ai nostri. Mi sembra il momento di agire e di creare veramente un’Europa “unita” che dia valore ai diritti e si assuma le sue responsabilità.

Maggiori informazioni:

Le richieste di Oranienplatz

Inchiesta rivista Exberliner 2013n1. n.2, n.3,

Blog sul campo rifugiati a Berlino

Articolo su formiche.net

 

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