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Violante parla della forza di Sant’Agostino e delle sue Confessioni

Le Confessioni, scritte tra il 397 e il 401, tra i 42 e i 46 anni di Agostino costituiscono la prima autobiografia spirituale di un credente scritta in prosa. Lo precedette in Oriente Gregorio di Nazianzo che scrisse però in versi e i versi obbediscono ai principi dall’estetica letteraria che a volte fa aggio sul principio di realtà. La forza di quella narrazione, dopo milleseicento anni, non deriva da questo primato; deriva dalla tensione spirituale tra colpa e redenzione, dalla profondità della riflessione e dallo sforzo di dare una spiegazione unica e totale della vita e del suo senso. Per questo tipo di riflessione le Confessioni hanno costituito e costituiscono le fondamenta dell’edificio religioso che, nelle tortuose vicissitudini della storia, dominerà la cultura occidentale nei sedici secoli successivi. Nei tredici libri Dio è solo apparentemente l’interlocutore del dialogo di Agostino.

L’INQUITUDINE E IL DRAMMA 
Il vescovo d’Ippona parla spietatamente a sé stesso; Dio è il testimone esclusivo, silenzioso e determinante della sincerità e del ravvedimento ed è soprattutto l’obbiettivo finale della vita dell’uomo. Le Confessioni sono l’opera di Agostino meno condizionata dagli eventi esterni e più legata invece al proprio percorso personale. E tuttavia è impossibile che le vicende esterne, politiche e religiose, non condizionassero, per la loro intensa drammaticità, la sua riflessione. Mentre il mondo classico crolla ripiegato su sé stesso, mentre infuriano gli scontri di religione, Agostino, dentro la propria inquietudine ha consapevolezza del dramma attorno a lui e costruisce un pensiero duro che da un senso alla vita e che proprio per questi suoi caratteri potrà reggere alla prova del tempo.

L’INTRECCIO TRA POLITICA E RELIGIONE
Le continue tensioni tra l’Impero dì’Occidente e l’Impero d’Oriente, la lenta decomposizione della civiltà romana sotto le spinte delle grandi migrazioni delle popolazioni del Nord e dell’Est Europa, le permanenti tentazioni dei governatori d’Africa di affrancarsi dai due imperi e in più la invasione dei visigoti, disegnavano un quadro di incertezze, instabilità e primato della violenza. I conflitti religiosi tanto tra cristiani e i seguaci degli antichi culti, quanto tra gli stessi cristiani rischiavano di far rimpiangere i tempi del politeismo, del relativismo religioso, quando ognuno poteva costruirsi un proprio dio, ritagliato in base alle esigenze del momento. Dominava lo smarrimento. Nella sfera pubblica del tempo, le vicende politiche si intrecciavano ineluttabilmente con le vicende religiose.

IL SACCHEGGIO DI ROMA
Il caso più rilevante fu il saccheggio di Roma da parte dei Visigoti avvenuto nel 410. Roma era il simbolo della storia di questa parte del mondo, la città che aveva dominato per secoli l’universo conosciuto, faro per secoli di cultura e di civiltà. Per cogliere lo smarrimento del tempo di fronte a quel saccheggio può valere un paragone: come se le truppe di Al Qaeda oggi invadessero e mettessero a sacco la città di New York. Roma presa e devastata era il segno della fine di un’epoca. I pagani attribuirono la responsabilità del saccheggio ai cristiani, il cui Dio aveva abbandonato Roma o non si era dimostrato capace di difenderla, a differenza dei loro dei che ne avevano sempre garantito l’incolumità.

Roma, insomma, avrebbe perso la protezione delle divinità pagane, per colpa dei cristiani. Agostino risponde nel De Civitate Dei che la distruzione di Roma è il segno della condanna da parte di Dio della città che era stata culla del paganesimo. Ai nostri occhi, naturalmente, 17 secoli dopo quegli eventi, la spiegazione non è convincente; ma il fatto che Agostino sia stato costretto ad affrontare il tema dimostra l’intreccio tra vicende politiche e conflitti religiosi.

LE TRE DIMENSIONI DRAMMATICHE DELL’OPERA
La disgregazione progressiva dell’impero romano, le grandi tensioni religiose e il conflitto che Agostino vive dentro di sé sono le tre dimensioni drammatiche nelle quali si colloca l’opera. La storia di Roma sta finendo, il cristianesimo può esaurirsi in conflitti interni, bisogna perciò ricostruire il significato della vita e quindi il pensiero deve armarsi per non soccombere. I suoi biografi, da Possidio, suo contemporaneo, in poi, raffigurano Agostino in lotta perenne per far prevalere il suo cristianesimo sull’eresia e sull’ errore: combatte prima il manicheismo, che lo aveva inizialmente affascinato, poi il donatismo dei seguaci del vescovo Donato, i pagani, i pelagiani, gli ariani, gli ebrei. In un mondo abituato da secoli a disporre di dei buoni per tutti gli usi, che hanno nomi evocativi, visi riconoscibili e storie avvincenti, deve proporre un Dio ignoto, difficile da capire, senza nome, senza immagine, senza storia.

LA SUA TEORIA
Questa tensione lo porta a costruire una teoria totale della storia dove c’è distinzione ma non separazione tra la città di Dio e la città degli uomini, strettamente intrecciate l’una all’altra. Un intreccio che rende ancora più drammatico il problema del peccato e della salvezza. Quando si sente vicino alla morte Agostino dispone che alle pareti della sua camera siano appesi i salmi penitenziali, in modo che possa leggerli senza sosta. Tra quei salmi c’erano le parole che pronuncia Davide quando Nathan lo rimprovera per la sua condotta con Betsabea:

“…Riconosco la mia colpa,
il mio peccato ti sta sempre davanti
…uno spirito contrito è sacrificio a Dio
Un cuore affranto e umiliato
Tu, o Dio, non disprezzi”

LA CHIAVE DELLA SUA VITA
In quelle parole c’è la chiave della sua vita, la lente per interpretare le Confessioni e forse anche il criterio usato per narrare, mutuato dai Salmi penitenziali che egli stesso selezionò dopo lunghi studi. Le Confessioni non sono il racconto di una vita; sono la ricerca dura e non ripetibile del senso della vita. In questa irripetibilità sta forse il carattere che le rende durature nel tempo.

 



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