Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Edoardo Narduzzi apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
I governi inglese e svedese proprio di recente si sono cimentati nelle privatizzazioni postali, mentre negli Usa il Postal Service è ancora tutto pubblico e perde a rotta di collo. I tedeschi, invece, privatizzando bene e per tempo la conglomerata postale hanno incassato tra il 2000 e il 2007 circa 20 miliardi e oggi ben il 21,2% delle azioni è detenuto da investitori americani.
Ora il governo Letta pare si sia deciso a collocare sul mercato tra il 30 e il 40% delle Poste italiane, un conglomerato perfino più diversificato di quello germanico che fattura oltre 24 miliardi e nel quale i servizi tradizionalmente postali contribuiscono solo per il 15%. Si tratta, dunque, di una privatizzazione all’apparenza postale ma nella sostanza conglomerale, perché le attività svolte dal gruppo statale sono molto diversificate. Le assicurazioni, ad esempio, nel primo semestre hanno prodotto il 61% dei ricavi delle Poste, più del doppio dei tradizionali servizi del BancoPosta, servizi ai quali si aggiungono quelli in materia di e-commerce, di logistica, di telecomunicazioni e così via.
Un conglomerato abbastanza originale nel panorama postale internazionale che può candidarsi a sfruttare anche alcune opportunità in materia di digitalizzazione del business: Postel, ad esempio, rinnovata nell’ultimo biennio è ottimamente posizionata per essere leader nel mercato della dematerializzazione dei documenti cartacei; in materia di sicurezza informatica il ruolo di Poste può essere altrettanto importante. Come hanno dimostrato tanti decenni fa i Nobel Modigliani e Miller i gruppi conglomerali non creano ricchezza per gli azionisti che possono sempre replicare in piena autonomia la diversificazione di portafoglio.
Ma nel caso di Poste la quotazione in borsa potrebbe essere un formidabile strumento di sollecitazione al miglioramento della creazione di valore, perché gli azionisti privati diventerebbero i più diretti interessati a far sì che il conto economico dei business più redditizi non sia costretto a sussidiare quello postale tradizionale. Se non c’è più posta fisica da consegnare, 35 mila postini non si giustificano più e la loro riorganizzazione è bene che sia «imposta» nei tempi dagli investitori piuttosto che lasciata alla trattativa tra politica e sindacati (la Cisl rappresenta il 51,5% dei dipendenti).
Il conglomerato postale quotato sarà più veloce nel far crescere i business che rendono e a ristrutturare quelli che perdono. Magari più sensibile a internazionalizzarsi e anche a sfruttare ancora meglio il canale di distribuzione fisico che possiede, capillare, e che ha dimostrato di essere in grado di vendere di tutto con costi contatto ipercompetitivi. Queste reti nel mondo disintermediato di internet valgono moltissimo, occorre solo sapersele far pagare il giusto.