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Renzi, Berlinguer e il partito “di lotta e di governo”

Affiora prepotentemente nel Pd la voglia di proporsi come partito di lotta e di governo, nella convinzione che ciò potrà recuperare a quel partito molti voti considerati di sinistra spostatisi ultimamente verso il grillismo e l’astensionismo. In verità la lotta c’è già stata, e ha condotto alla trionfale affermazione di Renzi, ora saldamente in sella al partito. Il governo ci sarebbe, ma essendo figlio di un’altra fase storica ritenuta superata benché abbastanza recente, non può che costituire l’obiettivo prossimo da conquistare, anche se oggi, a guidarlo, è Letta, un altro esponente del Pd, sino all’aprile scorso vicesegretario del partito-pilastro della maggioranza parlamentare. Va anche rilevato che i consensi nelle primarie Renzi li ha ottenuti più nella parte non moderata del Pd che in quella aperta alle compromissioni. Per esempio in Toscana, nei quartieri più rossi di Livorno (come la Corea o Shangai) o a Rosignano, dove in precedenza il sindaco di Firenze era stato massacrato. Ora è stato votato da maggioranze bulgare: l’87 per cento.

Lo stesso segretario regionale Rossi, duro contestatore di Renzi da sempre, ha perso nel suo territorio; ora ha anch’egli sposato la tesi del partito di lotta e di governo, ritenendola più congeniale per un movimento che ha visto attestarsi, attorno al nuovo segretario, i bolscevichi storici di Rifondazione comunista e non poche anime in pena cattoliche, integraliste, moraliste e giustizialiste,che hanno visto in Renzi l’uomo più idoneo a liberarsi definitivamente dal berlusconismo.

In verità l’espressione partito di lotta e di governo ha origini più nobili e ascendenze più propositive e non ostruzionistiche e distruttive come le odierne. Fu Enrico Berlinguer, dinanzi alla duplice vittoria della Dc e del Pci del 20 giugno 1976, ad accogliere l’ipotesi morotea di una corresponsabilizzazione dei comunisti (in grande maggioranza riluttanti a intese coi nemici storici democristiani e decisi a mantenersi puri e duri, cioè partito di lotta) nella convinzione che, giunti ad un punto nuovo della storia politica nazionale per volontà degli elettori e non dei partiti, spettasse anche al secondo partito italiano (il Pci) assumersi responsabilità di governo pur restando (per concezione, tradizione e abitudini di comportamento) un partito di lotta: senza se e senza ma.

Ora Renzi si sente padrone di un Pd che è primo partito nazionale (e non secondo), pur possedendo un’anima contestatrice, che costituisce inoltre la maggiore arma propagandistica per recuperare voti persi sulla propria sinistra; e non nasconde l’ambizione di aggiudicarsi il massimo consentibile, così attendendosi di alzare di molto le quotazioni elettorali del partito che guida e che vuole benefici, da subito: cioè quote di governo più ampie e più autorevoli rispetto a quelle conseguite da Letta sotto la prudente quanto realistica gestione del presidente Napolitano.

La nuova tattica in corso non esclude, anzi, un monocolore renziano, e non si cura delle altre forze presenti in parlamento e nel Paese. In tal modo l’espressione partito di lotta e di governo perde le caratteristiche della politica innovativa di Berlinguer; si connota come utile linea tattica, contestativa degli equilibri stabiliti da Napolitano; vellica il ventre molle dell’elettorato di sinistra spingendolo verso le posizioni più estreme un tempo tipiche dei concorrenti interni, ridimensionati nelle primarie.

Prevalendo la facies della lotta su quella di governo, il 2014 non si presenta certo tranquillo per una politica italiana già fin troppo caotica, stando alle convinzioni espresse da Letta e dal presidente della Confindustria Squinzi e come tale percepita dalla grande maggioranza degli italiani. E, dunque, il movimentismo di Renzi, certo non mutato dopo l’incidente ischemico di Bersani, composto di slogan semplici ma efficaci a livello propagandistico, può concorrere a elevare il caos a sistema ingovernabile.



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