L’accordo Lvmh-Loro Piana diventa un moltiplicatore di valore grazie alle sinergie distributive. Ma c’è chi dice che, nel risiko dei negozi, il potere dei big ha ormai superato i limiti delle regole antitrust.
L’unione fa la forza. Soprattutto, fa la forza contrattuale nella conquista degli spazi commerciali. L’entrata in un grande gruppo, se da un lato viene considerata con timore dagli alfieri dell’italianità dura e pura, dall’altro ha ormai dimostrato di essere un fattore che consente importanti multipli al valore. L’ultimo esempio riguarda Loro Piana, azienda già ricca per proprie capacità di posizionamento, che pareva a prova di qualsiasi tentazione di accelerazione. Viceversa, è finita nel portafoglio di Lvmh, il cui patron Bernard Arnault non ha esitato a mettere sul tavolo 2,5 miliardi di euro per assicurarsela. Ebbene, a chi piange sulla bandiera dell’italianità, rispondono gli analisti di Bernstein Research. In base ai loro calcoli, l’azienda biellese beneficerà, nel prossimo quinquennio, di una crescita media in termini di ricavi intorno al 14%, passando dai 631 milioni del 2012 a un miliardo previsto nel 2017. La redditività, sullo stesso periodo, si stima in incremento di 6 punti percentuali, passando dal 15,5% al 21,5 per cento. Tra i driver della crescita, appunto, c’è l’aspetto distributivo, favorito dalle particolari alle promettenti sinergie che hanno rafforzato il posizionamento di Loro Piana in Asia e sui mercati strategici grazie a Lvmh. Le sinergie potenziali sono tali, concludono gli analisti di Bernstein che “se il deal con Loro Piana dovesse funzionare, Lvmh avrebbe un fantastico movente per convincere altri imprenditori (per esempio Armani, Dolce&Gabbana, Della Valle, Ferragamo…) a vendere la maggioranza delle proprie aziende al gruppo francese, continuando a gestire le proprie aziende, ma allo stesso tempo beneficiando di essere parte di Lvmh”. È qualcosa di più di un esercizio finanziario: per competere all’estero bisogna essere grandi. Anzi, sempre più grandi. Al limite, comincia a chiedersi qualcuno, come il presidente di Sistema Moda Italia Claudio Marenzi, da varcare le soglie di quella concorrenza leale tutelata dalle normative antitrust di tutto il mondo.
IL GIOCO SI FA DURO
A questo punto, viene da chiedersi se l’Oriente è ancora una frontiera aperta e accessibile a tutti o ci sono meccanismi ed equilibri gestiti solo dallo strapotere dei grandi gruppi. In linea originaria, le regole del gioco della distribuzione nei mercati asiatici in via di sviluppo (Cina, Taiwan, Hong Kong e Sud Est Asia) sono in mano agli shopping mall, in cui i brand, o chi per loro, aprono solitamente negozi monomarca. “Vi sono modelli ibridi di department store (corner tipo Rinascente), ma sono soprattutto per fasce di prodotto a basso prezzo”, spiega Simone Pompilio, Retail Development Manager Ittierre Asia Pacific. Il problema è che si è creato un imbuto verso l’alto di gamma. “I pochi shopping center di alto livello (tipo Lane Crawford, IT, Joyce) coprono una fascia di mercato esclusiva – continua – e, dato l’ampio brand portfolio, non possono garantire enormi volumi ai singoli brand”. Ed ecco che, necessariamente, il gioco si è fatto più duro. Gli spazi retail di alto livello con un traffico soddisfacente sono divenuti scarsi e gli affitti sono ormai a livelli esorbitanti. Da qui, una vera e propria battaglia delle location. “In questo momento – conferma Eraldo Poletto, AD di Furla – l’area del Far East sta vivendo una fase di grande fermento sul piano dello sviluppo dei canali di distribuzione e commercializzazione dei marchi internazionali che approcciano questa parte del mondo nutrendo grandi ambizioni. Gli spazi però, sono quelli che sono, e per quelli giocano la partita i diversi brand. Noi non competiamo con Prada, Louis Vuitton e così via. Ma quando parliamo di location in giro per il mondo, la competizione è con chi si può permettere affitti straordinariamente superiori ai nostri”. Le partite, insomma, richiedono una scelta di campo, ossia un’alleanza con superpotenze del settore che assicurano un ottimo posizionamento dei propri top brand garantendo però lo stesso occhio di riguardo anche ai marchi minori che gravitano nella loro orbita. “I grandi gruppi – interviene Marenzi – detentori di svariati marchi importanti, attraverso un pesante potere contrattuale, influenzano le scelte distributive dei maggiori player della distribuzione organizzata in Asia, ma anche nel Nord America”. È chiaro, dunque, il perché le acquisizioni, che di questi tempi vanno tanto di moda, moltiplichino il valore di un’azienda che entra in un gruppo. “Più il gruppo detiene brand determinanti per la distribuzione, più il burst è grande. Il plus di entrare in un grande gruppo non risiede nelle sinergie di processo, ma nelle sinergie distributive”, ha continuato Marenzi.
I SUPER POTERI FRANCESI
Non è un mistero che le preoccupazioni in ambito distributivo riguardino in primis la superpotenza francese: “Le dimensioni – continua Marenzi – influenzano il potere contrattuale in maniera pesante quando si parla di conquistare spazi in mercati esteri. E marchi che fanno parte di grandi portafogli hanno vantaggi che talvolta diventano spropositati. Al punto da farne quasi un problema di antitrust. Per loro è più facile entrare, a livello decisionale, nei Paesi mentre per noi è molto più difficile data la nostra natura di individualisti. I gruppi francesi, salvaguardando le peculiarità di prodotto dei marchi acquisiti, hanno fatto più e meglio sistema nella distribuzione. Ecco la chiave di successo. Non tutti i gruppi italiani lo hanno capito o potuto farlo in tempo! E, in questo, c’è probabilmente la spiegazione della relativa debolezza del nostro fashion system rispetto a quello d’oltralpe”.
LE STRATEGIE IN CAMPO
Occorre dunque ragionare sulle strategie che realtà come Prada, Zegna o Armani, di dimensioni notevoli, ma pur distanti da colossi come Kering, Lvmh e Richemont, possano mettere in atto per salvaguardare posizionamento e autonomia. “La capacità di espandersi – riprende Pompilio – resta un fattore di successo determinante, un vero e proprio driver di crescita”. I modelli di azione messi in campo sono differenti a seconda della tipologia di prodotto, della fascia prezzo e delle dimensioni dell’azienda e hanno diversa natura: ci sono investimenti diretti della casa madre detenuti al 100% con controllo diretto della rete vendita (come Zegna); ci possono essere joint venture con controllo diretto di tutti i canali di distribuzione (come per Ferragamo); si può creare un mix di retail diretto controllato dalla casa madre e network di franchisee (vedi Giorgio Armani); oppure ci possono essere accordi di lungo termine con un unico distributore che controlla il 100% del retail network (vedi MaxMara). Certo, è difficile cercare scorciatoie di crescita attraverso licenze distributive. “Questa strada “è stata finora poco praticata – aggiunge Pompilio – in quanto, essendo il prodotto italiano di medio-alto livello, è spesso difficile trovare e gestire un partner locale che si occupi in maniera efficiente di tutte le fasi della catena del valore, dalla produzione alla distribuzione retail”.
PERICOLI IN SOLITARIA
Nel corso degli anni ci sono stati diversi casi di aziende di medie dimensioni posizionate come luxury, affordable luxury o premium casual che hanno tentato una gestione diretta del business in Asia scontrandosi con non poche difficoltà. “Ci sono marchi capaci di affermarsi in Europa negli anni 90 – prosegue Pompilio – grazie al corretto posizionamento verso una classe media ed una fascia di prezzo medio-alta, che poi hanno trovato molte difficoltà nell’incontrare lo stesso tipo di consumatore in Asia. Mentre il lusso ha avuto terreno fertile nel soddisfare la necessità di status symbol, brand di seconda e terza fascia come Liu Jo, Stefanel, Diesel, Pinko, Just Cavalli, Motivi hanno avuto problemi nel trovare una fascia di mercato che permettesse loro di prosperare ed investire”. Queste aziende sono incappate in errori piuttosto identificabili: “Dalla mancanza di visione strategica – elenca Pompilio – alla carenza di management con esperienza internazionale, dalla ineguatezza degli investimenti in marketing all’incapacità di creare strutture efficienti in loco, dall’errato time to market alla incompletezza delle collezioni”. La tentazione è stata forte per tante aziende che, negli ultimi dieci anni, si sono buttate sui mercati asiatici pensando di recuperare in poche stagioni i profitti che non riuscivano più a generare in Europa. Ma troppo superficialmente sono stati confusi come mercati cash cow dove miliardi di consumatori erano pronti ad acquistare qualsiasi cosa fosse made in Italy. Molti brand si sono preoccupati di aprire negozi (sia diretti che tramite distributori) senza preoccuparsi di trasmettere il Dna del brand, spiegare il prodotto, creare strutture di supporto ai franchisee locali.
CONQUISTE IN SOLITARIA
Andare in Asia da soli, però, è possibile. Lo testimoniano case history di successo come quella di Furla, esempio di azienda autonoma e indipendente che ha affrontato ed esplorato commercialmente i mercati emergenti, quelli con più alto potenziale di crescita, contando esclusivamente sulle proprie forze e senza dover gravitare nell’orbita di un investitore esterno. “Rimanere indipendenti – riprende Poletto – è importante, ma al tempo stesso è cruciale lavorare fianco a fianco con partner locali autorevoli e influenti, che conoscano bene le dinamiche, il funzionamento e le caratteristiche culturali degli specifici territori, ciascuno con le proprie peculiarità e con un preciso profilo dello spender moderno. È con questa certezza che Furla ha stretto, per esempio, un significativo accordo con Fung Group, in Cina, che prevede un serratissimo programma di rafforzamento e di espansione retail, supportato dal network e dall’expertise di un partner che ben conosce le regole del gioco”. A tirare le somme della questione è Marenzi: “A mio avviso si può andare ovunque da soli. Le difficoltà risiedono nelle tempistiche dilatate e si sa, più tempo ci si mette in una attraversata e più è facile incappare in una burrasca!”.