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Se in Argentina non conoscono la Nutella (II parte: chi ci perde?)

Se in Argentina non conoscono la Nutella, chi ci perde?

L’azienda che la produce? L’Italia? perché è il Paese in cui una grande azienda lavora, produce, pensa? I giovani e meno giovani italiani che in quella e in altre aziende, con casi affini, potrebbero lavorare? in quella e altre aziende, dal marketing ad altre parti dell’organigramma? Ingegneri, impiegati, operai, creativi? Lavoratori in più a fronte di una domanda più diffusa.

Ma la colpa se non si trova la Nutella oltre i confini dell’aeroporto, in nessun, e dico nessun luogo della città, Buenos Aires, e altre regioni, invece pieni zeppi di negozi “Milka” e marchi Nestlè. Tra i supermercati, i punti ristoro, le colazioni in hotel anche con ottimi prodotti, magari il burro francese, i Twist in aereo. Davvero difficilissimo pensare assenti del tutto i nostri prodotti. Acqua rigorosamente Evian. E le nostre, per altro con le peculiari caratteristiche di acqua leggermente frizzante? Tanta gara all’ultima bollicina e sodio in Italia e tanta assenza sul piano internazionale? E non è colpa delle industrie. No, per me è del mio Paese, che non fa rete, che non si fa carico di organizzare e favorire l’internazionalizzazione, e non dico attraverso costi e denaro, ma come spinta, appoggio, motivazione, intenzione, interesse nazionale, regia pubblica. Perché aspettarsi di creare lavoro come manna dal cielo invece che capire da dove possa derivarne?

Il lavoro sono le nostre “fabbriche culturali”: i musei, i monumenti, i siti archeologici, gli scavi a cielo aperto, la scuola e l’università da aprirsi ad accogliere gli stranieri, facoltosi delle altre nazioni come gli americani che fin dal primo neonato iniziano ad accantonare molti dollari per gli studi. Un bacino molto interessante nel quale l’Italia merita di ritagliarsi uno spazio, come luogo di studi seri e ambiti. Basta pensare solo a noi. La scuola italiana, l’università italiana, la cultura italiana, i monumenti e il cibo italiano devono essere per tutti, non possono essere pensati né solo nostri né solo per noi.

Ma veramente mettere il naso fuori e evitare di guardare solo il proprio ombelico, noi ce la possiamo fare e anche il nostro Pil, ma il mercato non siamo solo noi, non inizia e non finisce con noi, i quali d’altra parte consumiamo tantissimi prodotti americani, cinesi, giapponesi, tedeschi ecc ma difficilmente sappiamo imporre, promuovere, distribuire con la stessa capillarità. Forse mi si dirà perché loro hanno multinazionali noi preferiamo lo stile azienda-paese. Perfetto, ma come impronta di attenzione alla qualità. Ma dobbiamo fare uno sforzo Paese allora come regia di distribuzione dei nostri altamente migliori prodotti, e non può farlo l’azienda singola, l’imprenditore, perché a guadagnare in termini occupazionali saremmo noi, l’azienda una volta raggiunto il famoso Punto di equilibrio con il diagramma di redditività perché tutto sommato dovrebbe imbarcarsi, da sola, nei rischi globali, internazionali, specie se hanno già fatturati da far girare la testa come certe nostre aziende sane. Interesse nostro che loro possano anche aumentando di gran lunga i luoghi di distribuzione e i quantitativi tenersi ben sopra il punto di pareggio. Perché sembrano temi di economia distanti da noi ma parlare di lavoro, occupazione preoccupandosi solo del tipo di contratto di lavoro significa non avere in mente un piano di rilancio del sistema produttivo italiano.

Vi deve preoccupare e fare incavolare andare fuori e non trovare le “cose nostre”, almeno quanto ci inorgoglisce vedere speso il nostro brand Italia, senza una vera attinenza con noi: con pizze mal fatte, con materie prime non nostre, con affettati, mozzarella, pomodoro, contenuti base neppure lontanamente della qualità più alta che siamo capaci di produrre.

Quanta nostra economia non espressa c’è nel mondo dentro la parola pizza pasta, Italia?

Se facessi parte del prossimo governo, farei una chiamata di ricerca dei nostri produttori, agricoli e industriali; li inviterei a costituire un marchio che li raccolga, fortissimo, che fornisca nel mondo a ristoratori, centri di distribuzione, i veri prodotti italiani base, “a pacchetto” per il pezzo finale: pasta e pizza (per iniziare da due simboli che padroneggiamo ma senza “diritti”, e anche senza doveri).

Pensate quanti di voi sarebbero coinvolti da questa chiamata. Come lavoratori attuali, potenziali e produttori. Le nostre terre e le nostre “catene di montaggio” al servizio delle tavole mondiali.

Vi rendete conto che chi vuol mangiare hamburger sa in tutto il mondo e in ogni angolo dove recarsi e chi vuol mangiare pasta no? Deve cercare l’”autonomo gestore” di ristorante che sceglie quali prodotti reperire, e una cosa è farlo in Italia dove ovunque ti giri trovi cose buone, e una cosa è farlo negli altri Paesi dove l’olio di oliva sembra già un prodotto d’elite.

Se fossi chiamata a dare il mio contributo per il mio Paese oggi inizierei da qui: favorire con strumenti, idee, legislazioni, sgravi, messa in comune di mezzi, la costituzione di franchising di ristorazione italiana, dove si possono usare tutti i marchi italiani, dalla Buitoni alla Barilla passando per quelle più territoriali, e la concorrenza non si gioca nell’acquisto a monte ma nella scelta del consumatore, che oltre al sugo sceglie la pasta, la forma, la lunghezza e il marchio. E così via per gli oli, per i salumi ecc. Non è sufficiente ancora Eatitaly, un bellissimo passo in avanti ma che non nasce per avere il target e la capillarità di Mc Donald’s e quindi non basta ancora a soddisfare gli spuntini globali e la fame di Italia nel mondo.

Inoltre l’obiettivo deve essere far arrivare tanti se non tutti i nostri prodotti, dai taralli della Puglia ai grissini di Torino, voglio dire manca tanto delle nostre abitudini a tavola, appena sei fuori “Ventimiglia dall’Italia”. Sì perché persino la Francia, in fin dei conti manca di tanti alimenti, gli stessi salumi. Provate in Costa azzurra a cercare in un mini market e troverete del buonissimo prosciutto spagnolo a costo contenuto, e del carissimo prosciutti di Parma. C’è qualcosa che non va.

E come vedete non c’entrano tanto e solo le aziende. Noi abbiamo scelto a danno dell’occupazione mi pare di esportare poco e caro. E non c’entra la qualità. Perché vi assicuro che il più economico (in quella circostanza) Patanegra era assolutamente squisito. Anzi mi chiedevo perché non lo avessimo mai trovato così in confezioni commerciali piccole nei nostri supermercati. Quindi ci chiudiamo anche! difendiamo i nostri prodotti? Difendere i nostri prodotti è farli arrivare a tutti, e siccome sono davvero di qualità non temere concorrenza.

 

 

 

 

 

 

 

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