Non occorreva essere delle aquile per capire che l’impeachment si sarebbe risolto in una bolla di sapone. Come i rumors e le cartine fumogene attorno al “caso Friedman”, un grande scrittore e conduttore televisivo americano, i cui interventi non possono essere liquidati come fossero trovate pubblicitarie per se stesso. Le interviste di Friedman sintetizzate sul Corriere della Sera, televisivamente documentate e che andranno ancora avanti per un totale di dieci puntate, vanno lette per quelle che sono: un grande affresco mediatico di un’Italia che si ostina a mantenere inalterati i propri vizi e le sue scarse virtù politiche, e vive nella confusione permanente alimentando il complottismo (una delle facce dell’antiriformismo), esalta o massacra istituzioni e poi si chiede perché non viene presa molto sul serio dagli stranieri.
Veniamo ai fatti e personaggi descritti nel volume Ammazziamo il Gattopardo, di Alan Friedman che implica un concetto di libertà dal conformismo dei furbastri e degli opportunisti di cui sono piene le nostre contrade. A inizio dell’estate 2011, il V ministero Berlusconi era preda di una speculazione finanziaria franco-tedesca che andava logorando il governo e la sua maggioranza parlamentare, acuendo una frattura fra il ministro dell’economia Tremonti (molto stimato dalla Lega, impegnata a chiedere un redde rationem ed elezioni anticipate) e il presidente del consiglio, delle cui imprese private Merkel e Sarkozy sghignazzavano senza pudore dinanzi alle telecamere del mondo; mentre Bersani, avvertendo alle spalle un vento favorevole per la vittoria ottenuta nei quattro referendum popolari, sorrideva all’idea di trasformare quel voto come la premessa benaugurante di un successo in una consultazione politica anticipata. A Palermo, i giudici assolvevano il capo dei capi mafiosi Totò Riina dall’accusa di omicidio del giornalista Mauro De Mauro dopo quarant’anni dall’assassinio.
In tale contesto, il presidente della repubblica quotidianamente incontrava personalità d’ogni tipo e livello per sentire il polso del Paese reale; chiedeva promemoria economici; ascoltava pareri i più diversi; dava retta ai saggi consigli del suo amico d’una vita Emanuele Macaluso che, sul Riformista, esprimeva libere opinioni che tutti ritenevano potessero coincidere (non sin nei dettagli) con le preoccupazioni di Napolitano. Sul finire di giugno un signore autorevole di nome Mario Monti – rettore dell’Università Bocconi, solito scrivere editoriali politico-economici sul Corriere della Sera – prese contatto con illustri personalità fra cui Prodi (ex presidente del consiglio e commissario europeo) per sondarne la eventuale adesione ad una candidatura alla presidenza del consiglio, lasciando intendere (ma non dicendolo apertamente) che godeva del favore di Napolitano. Più avanti, Monti fece sondaggi analoghi nei confronti di De Benedetti (nemico numero uno di Berlusconi) e di Passera (che a novembre avrebbe nominato ministro del proprio governo).
Dunque, il problema non era dato da un interventismo politico di Napolitano per accertare come cacciare Berlusconi da Palazzo Chigi. La questione era – ed è – che Monti, vantando un grande prestigio internazionale quale membro del gruppo Bilderberg, presumendo di potersi guadagnare preventivamente vaste adesioni alla sua sfrenata ambizione di diventare capo del governo, si rivolgeva a destra e a manca per potersi presentare al Colle giurando di essere l’unico nome in grado di assicurare all’Italia un governo non chiacchierato e protetto dalle maggiori potenze economiche europee (e del gruppo Bilderberg). Non avendo ricevuto affidamenti certi da nessuno, dinanzi alla speculazione finanziaria che alzava il tiro; consapevole di essere quasi uno sconosciuto in politica, scrisse un fondo sul Corriere della Sera, intitolato Il podestà forestiero, cioè un tecnico professionale delle gestioni di potere nell’età comunale. Insomma, con lucida premonizione, Monti postulò la sua nomina a capo del governo di un’Italia parlamentare, divisa dalle risse bottegaie delle corporazioni (in buona parte schierate a sinistra). Quasi nessuno colse il significato recondito di quella anticipazione di un’autocandidatura accademicamente stimolante, politicamente imprevedibile e discutibile.
Il fato volle che il sogno montiano si realizzasse. Che all’assenza di credenziali politiche, si provvedesse nominando il professore senatore a vita, gli si affidasse la presidenza del consiglio e che il suo gabinetto, pur sfiduciato in parlamento, pilotasse le operazioni di voto del febbraio 2013, con previsioni generali favorevoli al Pd, mentre Monti, allestendo una propria lista, si considerava certo di risultare primo partito o, al peggio, secondo e non, invece, quarto per il rotto della cuffia, come in realtà accadde.
Si può, da tutto ciò, ricavare una morale? Ognuno può dire la sua; di altro non v’è certezza. Ora Monti sembra avere altre ambizioni: in Europa. Dove la qualificata presenza di Mario Draghi in un ruolo prestigioso, automaticamente preclude disegni e ambizioni di altri italiani. E poi perché anche l’Europa, come già l’Italia, non avverte alcun bisogno di un podestà forestiero.