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Augusto Monti e la riforma della scuola. Manifesto per una scuola libera

Tra il marzo e l’aprile del ’23, a pochi mesi dal varo della Riforma Gentile che segnerà per decenni il volto della scuola italiana, Augusto Monti pubblicò su “La Rivoluzione Liberale” di Gobetti cinque articoli dal titolo Lettere Scolastiche.

Data l’importanza che il tema della scuola riveste in ogni società, a maggior ragione se democratica, vale la pena rileggere quelle pagine, tanto più ora che sta per nascere un nuovo governo, che conservano intatte la freschezza e la straordinaria attualità di un pensiero originale e soprattutto innovatore.

Solo qualche mese prima, nell’ottobre del ’22, c’era stata la marcia su Roma. Nel maggio del ’23, a meno di un anno dall’insediamento del governo fascista, viene introdotta in Italia la Riforma della scuola di ogni ordine e grado, voluta fortemente da Mussolini che affidò a Gentile il compito, invero arduo, di pensare una scuola capace di plasmare l’uomo nuovo del fascismo. Nel breve lasso di tempo che intercorse tra l’inizio del fascismo e il varo della riforma, si sviluppò un intenso dibattito sulla scuola, che a poco a poco fece emergere due schieramenti che, pur sostenendo entrambi la necessità di un progetto riformatore, erano però divisi sulla natura, per così dire, della riforma. Se cioè questa dovesse avere un timbro più marcatamente statale, o se all’opposto dovesse essere lasciata libera iniziativa ai privati. Un dibattito, va da sé, quanto mai attuale.

Monti si schierò decisamente con il secondo schieramento, quello “liberale”, e sulle pagine della rivista gobettiana espose un progetto di riforma della scuola che delineava, forse inconsapevolmente, un vero e proprio “manifesto” per una scuola libera. In questo contesto, la prima delle cinque Lettere di Monti merita particolare attenzione, poiché in essa sono indicati i principii primi del progetto riformatore, ciò che costituisce il nucleo teorico del nuovo modello di istruzione.

Per Monti il punto centrale della questione è il seguente. A differenza di venti anni addietro, quindi agli inizi del ‘900, quando si diceva che la riforma in Italia era urgente ma ancora immatura, ora, invece, i tempi per il cambiamento sono maturi; non solo, ma si è anche sviluppata una sensibilità comune che ha portato a cambiare, in un certo senso, i termini della questione. Che – nota Monti – non è più “questione della riforma scolastica, ma sì questione della libertà scolastica”. A chiarire meglio la mutata sensibilità culturale, Monti aggiunge: “Mentre vent’anni fa…identico per tutti era il concetto che la riforma doveva farla lo Stato, adesso invece si dice: «lo Stato deve dare ai riformatori della scuola libertà d’azione»…Mi par di vedere…che, adagio adagio, si vada formando anche qui l’unanimità circa l’idea di sottrarre all’azione diretta dello Stato l’esperienza e la pratica delle riforme scolastiche”.

Monti concepisce così la libertà di insegnamento, e perciò stesso la libertà della scuola, come l’abbandono da parte dello Stato di ogni iniziativa riformatrice: “solamente deve lo Stato permettere che i privati escogitino queste riforme…e, di più, deve lo Stato, se è liberale, permettere che i privati liberamente esperimentino codeste riforme, e, magari, favorire quei privati che a lui paran meritevoli della maggior fiducia”.

Ma la critica di Monti va più a fondo. Subito dopo, infatti, chiarisce senza equivoci cosa si intende per scuola libera: “Lo Stato deve semplicemente rinunziare al suo monopolio scolastico, frutto di una politica laica, la quale ormai ha già dato tutti i frutti che poteva dare. Al quale monopolio può rinunziare: 1) smontando la grande macchina della scuola regia, della scuola di Stato…2) abolendo l’istituto della licenza (svalutazione dei titoli, esame di stato come ammissione all’università e alle carriere)”. Già queste poche, semplici idee, consentono di fare qualche considerazione sull’attualità. Il Parlamento italiano ha licenziato negli anni passati diversi progetti di riforma della scuola. Il tratto comune, al di là dello specifico dei singoli provvedimenti, è che tutti erano animati, pur con diverse sensibilità, dalla volontà di facilitare, prima o dopo, l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Quel che però non ha trovato soluzione, e sì che l’occasione non poteva essere più favorevole, è ciò che, a detta di Monti, è il problema della scuola, ieri come oggi, ovvero la questione della libertà di insegnamento. Perché ancora una volta si è trattato di riforme governative, quindi dello Stato; inoltre, e qui è da cogliere l’aspetto più stridente, in alcuni casi si è trattato di riforme della scuola volute e promosse da governi dichiaratamente liberali, che però non sono stati in grado di essere coerenti né con gli ideali del liberalismo, né con il principio sussidiarietà, uno degli architravi della dottrina sociale della Chiesa, di cui proprio nella prima delle Lettere Scolastiche di Monti è possibile rintracciare una delle migliori formulazioni, sia pure, per ovvi motivi, “tra le righe”.

Dopo aver illustrato la duplice via con cui Stato può abbandonare il monopolio dell’istruzione, Monti precisa: “…instaurato una volta codesto regime di libertà scolastica, lo Stato, e più precisamente, il Ministero della Pubblica Istruzione non deve più occuparsi di riforma della scuola…a questo attenderanno i privati (individui, corporazioni, enti locali), i quali, non più costretti a uniformare la propria attività educativa ai paradigmi statali, esperimenteranno liberamente, in concorrenza, riforme, programmi, metodi, con l’unica mira di conquistarsi, non privilegi e facoltà da parte dello Stato, ma favore e frequenza da parte del pubblico”.

Pur teorizzando l’abbandono completo da parte dello Stato in materia di riforme, Monti riconosce tuttavia la possibilità che lo Stato conservi per sé alcune scuole. Ma ribadisce che se esso, cioè lo Stato, vorrà sperimentare nuovi sistemi scolastici, “non dovrà – e non potrà più – allestire disegni di riforme generali, da applicarsi estrinsecamente e per legge, a tutte le scuole di quel tipo esistenti nel regno, ma si dovrà contentare di sperimentare, come un privato qualunque…quella riforma, in quella scuola, con quegli uomini, che crederà adatti a ciò. Ed anche a questa ridotta attività riformatrice lo Stato la dovrebbe esercitare solamente quando e dove alle riforme non attendessero i privati da sé…”.

Questi sono i termini in cui dovrebbe essere impostata sia la questione della riforma della scuola in generale, sia quella delle “scuole private”, in particolare. Si tratta, specialmente nel secondo caso, di un problema eminentemente culturale, e non, o non soltanto, di natura economica.

Il progetto montiano qui sommariamente esposto nei suoi capisaldi teorici aveva, ed ha, il significato di una rivoluzione copernicana rovesciata. Nel nuovo universo scolastico non è più la terra (scuola) che gira attorno al sole (Stato), ma al contrario questo ruota intorno a quella: la scuola, non lo Stato, essendo il fulcro ed il motore dell’attività riformatrice. Ma in questo caso il rovescio di Copernico non è Tolomeo. Non si tratta di un ritorno al passato. È piuttosto il tentativo di concepire le riforme in modo plastico, flessibile, in grado di corrispondere ai mutamenti sociali e culturali che il succedersi delle epoche produce. Avendo sempre di fronte a sé l’obiettivo di creare una scuola centrata sull’uomo, che è e resta il “fine” ultimo dell’attività educativa.

Non resta che augurarsi che queste parole di Monti divengano realtà: “quanti sono veramente convinti della necessità della scuola libera devono cessar dall’invocare dallo Stato la riforma di questo o di quel tipo di scuola, e devono rifiutarsi di collaborare con lo Stato, se questo volesse, nella sua inconseguenza, mentre largisce a parole una libertà, violarla nei fatti, coll’imporre, a chi non vi crede, una riforma congegnata dagli organi governativi”. A futura memoria.


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