Ah, la potenza archetipica delle parole! Svalutazione, ad esempio. Come resistere alla suggestione che porta a credere che se la “tua” moneta vale meno, tu vali di meno? Sulla rivalsa nazionalistica contro questo giudizio spregiativo hanno campato tanti regimi, dal fascismo di “quota 90” all’eurismo di “lavoreremo un giorno in meno”. I regimi, si sa, si nutrono di simboli, e l’euro, è ormai palese, è solo l’ultimo nella carrellata di simboli che hanno funestato la storia del XX secolo: come il fascio lega le verghe dei littori, così l’euro lega alcuni paesi europei, con l’aggravante che almeno le verghe erano tutte uguali, mentre i paesi dell’Eurozona son tutti diversi. Già questo fa capire che legarli insieme non è un’ottima idea: non è bene far di ogni paese un fascio.
Ragioniamo un attimo. Se vado al mercato alle 13 del sabato, probabilmente comprerò a 20 euro al chilo la spigola che al mattino ne costava 25. Forse che la spigola, con un altro prezzo, avrà un diverso sapore? Forse il pescivendolo è un subdolo manipolatore del mercato al soldo di qualche oscura lobby? Non credo. È solo che il mercato funziona, appunto, come un mercato: all’una del sabato la spigola sul banco è in eccesso di offerta, perché chi ne aveva bisogno per lo più è già in cucina a spignattare. Se c’è molta offerta, o poca domanda, il prezzo scende: lo sa ogni casalinga.
I rari esperti di storia monetaria sanno, e le rarissime persone di buon senso facilmente capiscono, che il prezzo della moneta, cioè il tasso di cambio, da sempre segue questa logica. La moneta si rafforza quando è molto domandata, si indebolisce quando è poco domandata. Perché si domanda una moneta? Normalmente, per comprare i beni del paese nel quale viene accettata in pagamento. Se per comprare i beni tedeschi occorressero i marchi, il marco si apprezzerebbe. Ma allora, si chiederà qualcuno, è vero che quando la nostra lira si svalutava noi valevamo di meno! Non è proprio così.
Perché c’è un’altra cosa che le casalinghe sanno: ciò che guida le scelte dei consumatori non è il solo prezzo, o la sola qualità, ma il rapporto qualità/prezzo. Poniamo, con riserva, che un’auto tedesca sia più affidabile di una italiana: in questo caso l’auto tedesca sarà più richiesta, e il suo prezzo aumenterà. La fluttuazione del cambio è essenziale in questo meccanismo di adeguamento del prezzo alla qualità. Se il meccanismo funziona, il consumatore è libero di scegliere fra pagare un po’ di più, per avere più qualità, o un po’ di meno, per rientrare nel proprio bilancio. Oggi il meccanismo è inceppato, e il consumatore italiano ha solo due scelte: o pagare una Bravo come una Golf, o farsi tagliare lo stipendio, nel tentativo di far costare una Bravo meno di una Golf, con l’ovvio risultato di non potersi poi permettere né l’una né l’altra!
Non è una gran libertà, vero? Questo esito illiberale è il risultato di una scelta intrinsecamente illiberale: quella di non far funzionare il più importante dei mercati, il mercato valutario.
Va peggio ancora se consideriamo i rapporti fra i paesi legati nel fascio dell’euro e il resto del mondo. Il crollo degli Stati Uniti nel 2008 ha determinato un colossale calo della domanda globale. Ogni paese ha visto cadere le proprie esportazioni, e con esse la domanda della propria valuta. Chi ha potuto (Regno Unito, Polonia, Corea del Sud,…) ha lasciato funzionare il mercato: le rispettive valute, meno domandate, si sono deprezzate, il rapporto qualità/prezzo si è rialzato, la domanda dall’estero è ripartita, e con essa l’economia. E noi?
Dopo aver creato due serbatoi di manodopera a buon mercato (il primo con l’annessione della Germania Est, il secondo con le riforme Hartz, quelle dei minijob a 400 euro al mese), la Germania, con le politiche di austerità inflitte ai paesi del Sud, sta drenando da questi ultimi le menti migliori, i giovani formati con i nostri soldi nelle nostre università. Non è quindi strano che sia competitiva e continui ad esportare. Il risultato, ovvio, è che l’euro si rafforza, perché il più grande dei paesi che lo adottano esporta, grazie a politiche spregiudicate e non cooperative, mentre a tutti gli altri paesi farebbe comodo che esso si indebolisse.
Certo, forse è possibile rimediare “a valle” agli squilibri che il mancato funzionamento del mercato valutario crea. Va ora di moda il partito dei “trepercentisti”, di quelli, cioè, che credono che basterebbe rimuovere il vincolo del 3% sul deficit pubblico dei paesi dell’Europa meridionale per far ripartire l’economia. Questa proposta è assurda sia politicamente che economicamente. Da italiano, mi ripugna l’idea di mendicare indulgenza in Europa per la violazione di una regola fiscale infondata. Da economista, so che il rilancio della domanda interna via spesa pubblica farebbe aumentare i consumi e quindi le importazioni, creando ulteriori problemi di bilancia dei pagamenti, quei problemi che Monti ha appunto risolto “distruggendo la domanda interna” (per usare le parole con le quali si è vantato del bel risultato alla CNN).
L’unico rimedio razionalmente sensato sarebbe quello di ridisegnare le regole europee non per permettere ai governi in difficoltà di spendere di più, ma per imporlo a quelli che non sono in difficoltà. La spesa pubblica andrebbe parametrata non all’equilibrio dei conti pubblici, ma a quello dei conti esteri. Se così fosse, la Germania, paese in surplus estero, dovrebbe fare politiche fiscali espansive per rilanciare la propria domanda interna, sostenendo così il mercato unico (via maggiori importazioni da parte degli altri paesi europei).
Perché non lo fa, visto che i massimi economisti mondiali glielo suggeriscono da anni? Semplice. Perché Babbo Natale non esiste, e perché solo degli ingenui (esclusi i presenti) possono credere alla favoletta del paese forte che si unisce ai deboli per aiutarli. Chi invece crede nella libertà e nel mercato ha una buona occasione per dimostrarlo, opponendosi, prima che sia troppo tardi, al simbolo del regime.