Il Governo che si sta formando, le dichiarazioni programmatiche del nuovo premier e le primissime uscite pubbliche di alcuni ministri sono state occasione di dibattito sui temi fiscali. Era prevedibile, sarebbe stato strano il contrario. Ma la sensazione è che siamo restati “con la palla al centro”, senza usare le “fasce laterali”. A che mi riferisco, prendendo a prestito un approssimativo gergo sportivo? Al fatto che gli ingredienti del dibattito siano stati: più tasse di qui, meno di lì, shakeriamo con un po’ di semplificazione e il gioco è fatto. Palla sempre in zona centrale, dunque. E invece, proviamo ad usare un po’ di pensiero laterale e le fasce, disorientando la difesa (dello status quo). Vale la pena riflettere, per cambiare le cose proprio in un momento come questo, sulla opportunità di un nuovo rapporto tra Stato e cittadini in materia fiscale.
Cosa pensereste infatti se vi fosse riconosciuto un diritto come “premio” dell’esercizio di un dovere? “Questi sono matti” (disvalore sottostante, l’incredulità). Forse. Oppure: “no, grazie, chissà cosa c’è sotto” (disvalore sottostante, la sfiducia).
Ebbene, il dovere è quello di pagare le tasse, il diritto è la chance di partecipare alla distribuzione di un beneficio collegato alla transazione oggetto dell’imposizione fiscale. Sì, proprio una di quelle che ogni tanto, dicitur, (s)fuggono al fisco. Entriamo nel vivo, e mi scuso per l’approssimazione “da relatore pubblico” con la quale tratterò temi tecnico-fiscali.
Il punto è spinoso. Sotto tanti punti di vista: economici, giuridici, etici. Anche per le relazioni pubbliche dove il rapporto Stato-Contribuente è poco studiato. Eppure, siamo nel vivo del sistema di relazioni dell’organizzazione per eccellenza con i pubblici influenti per definizione: chi c’è di più “influente” del cittadino, che invera il suo essere influente proprio con il suo status di contribuente? Attraverso il prelievo fiscale permette infatti allo Stato di realizzare i suoi obiettivi: in primis sicurezza e distribuzione di servizi pubblici.
Il cittadino, tuttavia è (anche) stakeholder, cioè portatore di interesse: al di là di una minoranza comunque disinteressata – che fa da pendant ad una certa accezione di Stato minimo – c’è una larga fetta di cittadinanza che avrebbe una gran voglia di attivarsi e interloquire con il suo ente politicamente supremo. Di superare il mero concetto di “rapporto occasionale”, di transazione, ed entrare in relazione con il “suo” Stato. Concorrendo attivamente alla realizzazione di quei fini pubblici che ha solo in parte delegato alla macchina pubblica in cambio di un generico diritto ad essere (lasciato) in pace. Quello che accade, invece, è che seguendo i parametri identificati da Grunig e Ehling (1992) per misurare la qualità delle relazioni pubbliche – reciprocità; fiducia; credibilità; mutua legittimazione, soddisfazione e comprensione; apertura; – la metrica della relazione Stato-cittadino fa acqua sotto tutti i profili. Al momento, lo dicono tutte le ricerche, campeggiano i loro opposti: asimmetria, sfiducia, mancanza di credibilità, insoddisfazione, incomprensione, chiusura. Dal cittadino verso lo Stato, ma anche – come dimostrano le tecniche di recupero dell’evasione – di quest’ultimo verso il cittadino.
Come reimpostare allora una nuova relazione tra Stato e cittadino? La risposta, per un relatore pubblico, è quasi banale: basterebbe che il primo mettesse in campo comportamenti e attività tali da coinvolgere in modo etico il cittadino, da ingaggiarlo e renderlo stakeholder. Quali sono allora le leve a disposizione del “pubblico” nei confronti dei privati? Sono soprattutto le loro attitudini e preferenze. Tra di esse, il gioco. Attenzione. Quando si tocca il gioco, si tocca un nervo sensibile: si tratta di attività che, comprensibilmente, è sotto osservazione per la dipendenza psicologica che può produrre, per gli spazi occupati dall’attività illecita, e per il trend in continua crescita della sua industria, i cui dati ufficialmente rilevati sono – per quanto detto – certamente per difetto.
Qui però non ci riferiamo al gioco d’azzardo, tantomeno al gioco come attività fine a se stessa. Ci riferiamo piuttosto ad una rivoluzione culturale soft che rende anche una prestazione obbligata, come quella tributaria, meno sgradita.
Si tratta – nonostante alcune felici eccezioni che cominciano a diffondersi specie a livello locale, dove evidentemente maggiori sono le elasticità delle amministrazioni e le loro prossimità con la comunità – di un atteggiamento molto poco diffuso nei rapporti Stato-contribuente, invero caratterizzati dall’essere criminogeni e repressivi. Sebbene la storia – oltre che il buon senso – dimostrino che in un sistema aperto chi tende a violarlo ha sempre un “colpo in canna in più” rispetto a colui che è chiamato a difenderlo. E’ come guardare due squadre di calcio, per restare nel…campo sportivo: una in 11 perennemente all’attacco, l’altra in 4, senza portiere e costretta alla difesa. Prima o poi, i quattro un gol lo beccheranno, a meno che non siano i supereroi… E non solo. Ogni ipotesi di riforma si fonda sull’introduzione del contrasto di interessi tra i protagonisti della transazione economica: il consumatore verrebbe posto nelle condizioni di avere convenienza ad esigere il documento fiscale da parte di chi sarebbe chiamato, per legge, ad emetterlo. Ma come trovare un punto di equilibrio che scoraggi comportamenti collusivi? E non si esaspera la diffidenza tra categorie che pretendono, ognuna, di avere ragione?
La proposta (non richiesta) in termini di relazioni pubbliche che qui facciamo invece si basa su concetti opposti: l’imposta va pagata perché è dovuta, ma anche perché può avere una “ricompensa”, convenire e addirittura divertire. In che modo? Costruendo una relazione col contribuente per effetto delle transazioni, non colpevolizzandolo a priori, non mettendolo – a livello orizzontale – in contrasto di interesse col suo vicino di casa, né – a livello verticale – in posizione di sudditanza rispetto all’ente esattore, addirittura presumendo un comportamento illecito salvo prova contraria.
In un sistema aperto, la relazione va invece resa più equilibrata. Il ministro Padoa Schioppa, scomparso nel 2010, fu criticato per aver detto che pagare le tasse è bello. Se non è bello, può però essere accettabile. Ad almeno tre condizioni. Una, di scopo: vedere il ricavato della propria imposta ben spesa (con il principio federalista, ciò è indubbiamente più tangibile); la seconda di equità tra contribuenti, così che tutti concorrano in ragione della loro capacità contributiva (art. 53 della Costituzione italiana); la terza, di modalità: dare, col pagamento dell’imposta, l’aspettativa di un possibile beneficio personale e tangibile. Se lo Stato o l’ente pubblico rinunciasse ad una frazione di gettito fiscale, potrebbe dedicarla ad un “montepremi” da destinare come ricompensa ai contribuenti onesti. Che verrebbero premiati, per effetto della transazione finalmente “alla luce del sole” non per il timore del controllo fuori dal ristorante, ma per la possibilità di una “ricompensa” collegata all’emissione di quello scontrino, di una ricevuta, etc. e che potrebbe avere differente contenuto. Il più banale, ma più “controverso”, una vincita di denaro tout court; ma si potrebbe pensare ad un bonus fiscale, ad un voucher istruzione per le famiglie. Insomma, ad un risultato concreto a favore tanto di chi emette il documento fiscale (ad oggi, una specie di criminale lombrosiano), quanto di chi lo riceve (ad oggi, poco incentivato a pretenderlo). Col che si passerebbe ad una composizione di interessi tra soggetti che al momento o si guardano in cagnesco, anche per effetto di una retorica bellicosa tra lavoratori dipendenti e autonomi, o cercano sottobraccio un punto di equilibrio sulle reciproche convenienze derivanti dalla non emissione del documento fiscale.
Presupposto quantitativo sarebbe la rinuncia ex ante da parte dello Stato ad una frazione di gettito teorico. Si prenderebbe atto che una percentuale di evasione è ineliminabile, senza fare proiezioni di contabilità su gettiti potenziali. E si punterebbe a recuperare la percentuale eccedente l’evasione “naturale” – che non dimentichiamo esiste in tutti i Paesi, anche i più civili – attraverso un’imposizione più attenta al contribuente. Innescando un moltiplicatore di reddito disponibile e rendendo la politica fiscale elemento attivo di una politica industriale ed economica che individua le priorità e le persegue anche con meccanismi innovativi che valorizzino i comportamenti virtuosi dal punto di vista civico. Una sorta di smart tax, insomma. Dove smart (minuscolo) non è un veicolo visto transitare da e verso i Palazzi nei giorni scorsi, ma è un aggettivo che sta sia per intelligente (nell’inglese statunitense) che elegante (per i britannici): un modo intelligente ed elegante di impostare una nuova relazione stato-contribuente, singolo o impresa. Contaminazione tra etica ed estetica, con una nuova, dinamica e più equilibrata visione del concetto di cittadinanza. Proprio quello che ci vuole, anche nelle relazioni pubbliche.