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Craxi e Renzi. Gianni De Michelis trova più similitudini che differenze

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’intervista di Goffredo Pistelli a Gianni De Michelis apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Craxi e Renzi: il parallelo circola da tempo e non solo perché il sindaco di Firenze pare voler rovesciare il Pd come un calzino, come fece Bettino col Psi. Un po’ di tempo fa, era il giugno del 2012, il primo a formularlo fu lo storico Miguel Gotor, fedelissimo di Pier Luigi Bersani e per questo spedito in Senato, dove siede tuttora.

In un editoriale per Repubblica, Gotor definì il Rottamatore, «un nuovista arcaico» e uno degli arcaismi che Renzi celava, sotto la patina del nuovo, secondo lui era appunto il craxismo: «Renzi ha indubbie qualità politiche corsare che si basano sul potere di interdizione e di ricatto e, con questo suo modo di fare, sembra il figlio ideale di Ghino di Tacco». Non voleva essere un complimento, ovviamente. Ghino era quel signorotto medievale che, da Radicofani, nel Senese, controllava la via di Roma, ora applicando tasse ora depredando, certo sempre facendo valere la rendita di posizione del suo castellaccio. E non lo era neppure quando Eugenio Scalfari coniò quel parallelo proprio per Craxi, presidente del consiglio, in un’intervista a Panorama. Era il 1985 e il segretario socialista, infischiandosene, cominciò a firmare con quello pseudonimo gli editoriali dell’Avanti. Ma, insomma, Craxi-Renzi è un accostamento che ha senso? Gianni De Michelis, veneziano, classe 1940, pluriministro socialista negli anni ’80, è certo uno che può rispondere.

Domanda. De Michelis, questo paragone regge o no?

Risposta. Devo fare una premessa

D. Prego

R. Giudico Renzi dall’esterno, perché non lo conosco personalmente. Lo giudico da quel che vedo e da quel che leggo.

D. Può bastare

R. E allora mi pare che l’accostamento non sia poi così arbitrario.

D. Perché?

R. A cominciare dal dato anagrafico: Craxi aveva 42 anni quando al Midas divenne segretario socialista e Renzi aveva 38 anni, quando, alla fine dell’anno, scorso s’è istallato al Nazareno. E anche alcune cose che fece da segretario Psi furono tranchant come alcune che fatte oggi dal sindaco di Firenze.

D. Per esempio?

R. Il suo incontro con Giorgio Almirante, segretario del Movimento sociale italiano, mi ha ricordato molto la rottura che ha provocato Renzi invitando Silvio Berlusconi al Nazareno. Craxi voleva rompere la conventio ad excludendum che c’era contro i missini, rottamando l’idea di arco costituzionale. Mi ricordò che anche nel partito fu criticatissimo perché sdoganava i fascisti.

D. Un decisionista

R. Senza dubbio. Lo era. E mi pare che lo sia anche il sindaco. Li chiamo gli uomini-laser, che vanno diretti all’obiettivo, costi quel che costi. Io per esempio non lo sono: sono curioso e quindi dispersivo. Ora dobbiamo capire se Renzi, oltre ad avere queste caratteristiche, sappia anche governare.

D. Manca la controprova, lei dice

R. Esatto.

D. Certo, Renzi per il momento non ha avuto nessuna Sigonella (la prova di forza con gli le truppe speciali Usa che s’erano andate a prendere il terrorista palestinese Abu Abbas, facendo scalo nella base siciliana ndr). E speriamo che non ne abbia

R. Beh quello fu l’emblema del decisionismo: i carabinieri schierati intorno all’aereo, faccia a faccia con i militari della Delta force. Craxi era fatto così, non ammetteva che un Paese ci trattasse in quel modo, per quanto fosse importante, anzi il più importante.

D. Insomma Renzi deve dimostrare d’essere uno statista…

R. E provare di conoscere, anche lui, la regola del pollice in politica

D. Prego?

R. Non la conosce? Gliela spiego, come la spiegai a B., l’ultima volta che lo vidi

D. Per inciso, quando è stato, onorevole?

R. Otto anni fa, anche se prima ci vedevamo più spesso. Gli dissi che in politica si deve usare un terzo delle proprie forze e delle proprie capacità per conquistare il consenso e i restanti due terzi per usarlo, una volta conseguito.

D. Perché questo dosaggio?

R. Perché per conquistare il consenso significa aver a che fare con la soggettività dell’umano: si possono raccontare fole, si può persino imbrogliare, si può far tutto ma, quando si passa a usare quel consenso, cioè a governare, si ha a che fare con l’oggettività dei problemi. Non bastano i bei discorsi se il pil cala.

D. E lei lo disse al Cavaliere?

R. Certo. Gli dissi un paio di volte che era troppo innamorato della conquista del consenso e che ci stava impegnando i tre terzi della sua energia. In questo Renzi potrebbe essere anche più simile a B. che non a Craxi, ancora non lo sappiamo.

D. Qualcuno ha detto che Matteo è un po’ arrogante. Come Bettino

R. Un attimo: Craxi era timido, chiuso, quasi introverso. E questa soi-disante arroganza era frutto del suo carattere. Il segretario democrat mi pare di un temperamento solare, deciso.

D. Un po’ troppo guascone per alcuni

R. Eh sì, Craxi non faceva battute, per esempio.

D. Passando ai difetti, De Michelis, di Renzi si dice che sia un accentratore, che non si fidi di nessuno, e che quindi non riesca, alla fine, a costruirsi una squadra.

R. Accentratore lo era anche Bettino, però la squadra l’aveva voluta e saputa scegliere. Di nuovo: io non conosco nessuno di questi del cerchio renziano: sono giovani, potrebbero farsi, come non farsi.

D. Franco Cangini ha detto che Craxi volesse fare la grande riforma istituzionale e poi non ne avesse avuto il coraggio. Il sindaco di Firenze invece pare accelerare.

R. Sa, il segretario del Psi scrisse quelle cose nel 1979 e andò al governo solo nel 1983. E poi ricordiamoci che era a capo del terzo partito italiano. No, non ci furono le condizioni. Renzi mi pare messo meglio. Innanzitutto perché guida il primo dei partiti italiani e poi, se la riforma passa, con la fine del bicameralismo e una forte maggioranza alla Camera, avrà tutte le condizioni per operare.

D. Quanto alle altre riforme che il sindaco ha fatto balenare all’orizzonte, ci sono punti di contatto col vostro riformismo? Penso al lavoro, per esempio

R. Non credo che il Jobs Act, che Renzi ha presentato, sia sufficiente. In questo concordo col ministro Enrico Giovannini: l’impostazione mi pare un po’ sommaria. Non mi pare che si affrontino i problemi veri_

D. Per esempio?

R. La flessibilità: si procede secondo il modello danese, ma la Danimarca ha risorse che noi non non abbiamo. Non potremmo farlo. E non vedo la questione di fondo: ridare competività al sistema produttivo italiano. Vorrei ricordare che noi tagliammo i punti di scala mobile.

D. E vinceste pure il referendum nel 1985…

R. Stupimmo l’Europa: nessuno si aspettava che l’avremmo fatto. Nemmeno Craxi, alla fine. Cominciò a pensare che non valesse la pena rischiare così tanto. Con Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto e Ottaviano Del Turco (segretari di Cisl, Uil e componente socialista della Cgil, ndr) gli dicemmo che non avremmo consentito neanche a lui di mollare. E lui, stupendoci molto, andò in tv e disse che, se avesse perso, si sarebbe dimesso.

D. E la Cgil di Luciano Lama era più tosta con quella di Susanna Camusso con cui s’è scontrato Renzi.

R. Veramente, proprio sul Jobs Act mi pare che Renzi abbia cercato di attenuare quello scontro, anche perché era scontro anche col resto del Pd.

D. Nella battaglia renziana contro la burocrazia e per il primato della politica, non sente quache accento familiare?

R. Negli ultimi 20 anni, il declino della politica ha aperto a poteri come quelli delle burocrazia, della magistratura, dei sindacati. Una buona battaglia ma non basta: devi aver la visione. In ogni grande cambiamento ci problemi e opportunità, vanno individuate le seconde per risolvere i primi.

D. Renzi ha saputo coinvolgere avversari duri, come certi bersaniani. Craxi lo avrebbe fatto?

R. Lo ha fatto. Lombardiani, demartiniani: c’era una sinistra che, all’inizio, gli s’è opposta, quando si trattava di andare o no al governo. Ne facevo parte anche io, anche se dopo abbiamo collaborato. Bettino sapeva distinguere il piano personale da quello politico.

D. Senta però una differenza fra voi e Renzi c’è: siete stati un gruppo di gaudenti, innamorati della vita e circondati di belle donne. Il sindaco è un «cattolicone» con pochi grilli per la testa.

R. Nessuno è perfetto (ride).

D. Si comincia a dire che si sta mettendo contro i poteri forti, un po’ come faceste voi…

R. Non sarei così d’accordo: sento parlare di buone relazioni in America e nel mondo finanziario.

D. Che consiglio gli darebbe?

R. Di definire esattamente i connotati di questo Paese: negli ultimi 20 anni è cambiato tutto e noi siamo rimasti immobili. Questo richiede visione, capacità di analisi e il non copiare ma produrre qualcosa di originale.

D. Gli darebbe fiducia?

R. Come per il budino, Renzi va assaggiato. E credo che tutti debbano augurarsi che sia buono.

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