Fuori dal tunnel, ma dentro una rotatoria da cui non è semplice uscire. Per l’economia italiana l’attraversamento del tunnel di due recessioni quasi continue è stato lungo. In sei anni il PIL reale è andato indietro di nove punti percentuali. Il volume degli investimenti produttivi si è abbassato di oltre un quarto. Il complesso dei crediti deteriorati è salito a valori che si avvicinano alla quinta parte del PIL del paese. Ed ora, dopo il tunnel della recessione, c’è il rischio di mettersi girare a vuoto lungo il circolo vizioso dei “crunch”. Il crunch del credito. Il crunch del capitale produttivo e degli investimenti. Ancor prima, il crunch della competitività. La perdita di competitività è il nocciolo del problema italiano. Attuando una riforma del mercato del lavoro importante nel 2012 la Spagna ha creato i presupposti per un recupero di competitività che oggi consente all’export iberico di marciare a velocità multiple rispetto a quelle nostre. Negli ultimi due anni il costo del lavoro per unità di prodotto è sceso in Spagna di quattro punti percentuali mentre è cresciuto di quattro punti in Italia. Riduzione del “CLUP” non vuol dire solo taglio dei salari. In Spagna ha significato anche aumento della produttività, innovazione e investimenti. Quei consistenti investimenti che i grandi produttori di auto di mezzo mondo hanno ripreso a fare in Spagna non certo perché la domanda di automobili in quel paese abbia ripreso a tirare.
Nella fase matura della globalizzazione le riprese economiche si consolidano promuovendo la competitività delle imprese oltre che sostenendo i redditi delle famiglie. Competitivo è il paese capace di trattenere e di attrarre le produzioni, a partire da quelle delle grandi multinazionali. Alla prova della competitività ognuno combatte con le armi che ha disponibili. Negli USA si muovono le politiche industriali e quelle dell’energia, dal “re-shoring” del manifatturiero ai ribassi dello “shale-gas”. A favore della competitività in America giocano anche un dollaro mai troppo forte ed un mercato dei finanziamenti alle imprese meno esposto ai vincoli delle nuove regole bancarie e più capace di sostenere l’innovazione. In Europa la sfida della competitività vede invece la pressione di giovani economie industriali ove il costo del lavoro, stante anche l’effetto dei cambi, si mantiene su sottomultipli dei livelli delle grandi economie dell’euro. Valori assai bassi su scala mondiale. Ma a farci concorrenza non sono solo gli otto dollari l’ora pagati all’operaio polacco, che sono meno di quelli corrisposti all’operaio coreano. È anche la sfida di paesi dove le competenze dei lavoratori migliorano rapidamente, mentre sia il fisco sia la burocrazia si mostrano più “business-friendly” che qui. In Serbia, per fare un esempio, bastano 600 giorni per chiudere una causa civile, la metà che in Italia.
In questo contesto, la strada per rendere l’Italia una destinazione competitiva non può essere solo quella della riduzione dei salari. Si può fare di più, magari lavorando sul filo rosso che lega fisco, capitale e credito. Ridurre con decisione quel cuneo fiscale in capo alle imprese che è in Italia è del cinquanta per cento più alto che in Germania. Senza parlare del cuneo polacco. La leva fiscale andrebbe usata in maniera strutturale anche per rilanciare la convenienza per le imprese ad accrescere il proprio capitale di rischio e a quotarsi. Oggi la capitalizzazione media delle prime dieci società tedesche produttrici di beni di consumo – da Volkswagen a Osram – è il quintuplo della dimensione delle corrispondenti imprese italiane, da Luxottica a Cucinelli. È un divario molto più grande della differenza che c’è tra il PIL tedesco e quello italiano. È uno spazio che andrebbe colmato per assicurare alla ripresa della nostra economia le risorse finanziarie necessarie per gli investimenti. Infine c’è il credito, di cui va lenita la prociclicità ovvero la tendenza a pesare i retaggi avversi della crisi passata ben più delle prospettive di futura ripresa.
A regime, Basilea III prevede che in anni difficili, per allentare il “crunch” del credito alle imprese le banche possano attingere a “conservation buffer”, a riserve di risorse accumulate in periodi migliori. Il problema è che, con sei anni di crisi alle spalle, questi periodi buoni in cui mettere fieno in cascina non li abbiamo ancora vissuti. Nell’attesa che i regolatori internazionali provino a ricalibrare gli effetti di una epocale discontinuità macroeconomica, in Italia sta a banche, imprese e istituzioni lavorare insieme per rafforzare i meccanismi di garanzia del credito alle PMI. Per non negare risorse a chi è in grado di imboccare con successo la via del rilancio della competitività e dello sviluppo.
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