Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Goffredo Pistelli apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
Quando entra in politica la Dc non c’è più. Matteo Renzi, classe 1975, nato a Firenze ma cresciuto a Rignano, riva sud dell’Arno a monte del capoluogo, s’affaccia ai Popolari, quelli nati dalla disintegrazione della Balena bianca per via giudiziaria. Del partitone in cui aveva militato babbo Tiziano, consigliere comunale della sinistra di Base, i Popolari non hanno neppure più lo Scudo crociato, che s’è preso il Cdu di Rocco Buttiglione dopo la scissione del Ppi martinazzoliano, ucciso dal maggioritario. Al suo posto c’è uno stendardo, vaghe parole d’ordine cattodemocratiche e percentuali di votanti a una cifra sola. Il giovanissimo Renzi, 24enne, lo raccoglie lo stesso, lanciato a fare il segretario cittadino da giovanotti di belle speranzgiochi hanno una decina di anni in più, Lapo Pistelli e Giacomo Billi, già esperti consiglieri comunali, il primo in parlamento nel 2006 con l’Ulivo. È il 1999 e lui dove fare, politicamente, il garzone o poco più. Renzi, scout, parlantina sciolta, dinamismo, è solo il terzo di quella nidiata, tutta covata da Beppe Matulli il demitiano storico di Firenze.
Con Pistelli a Roma e Billi a fare l’uomo forte in Comune e poi nelle municipalizzate, Renzi sta nel partito, divenuto nel frattempo Margherita, di cui diventa segretario cittadino nel 2003. L’anno dopo, in omaggio alle logiche post-uliviste, i Ds concedono ai deboli alleati margheritini il più inutile degli enti a Firenze: la Provincia. Loro, potentissimi, si sarebbero tutti Palazzo Vecchio, ai cuginetti avrebbero confermato la Palazzo Medici-Riccardi, dove aveva governato per due, non senza polemiche il donmilaniano Michele Gesualdi, già segretario Cisl. Quel ragazzotto cicciottello, laureato in Legge con tesi su Giorgio La Pira, al partitone post-comunista va benone: la macchina della provincia, rodata da mezzo secolo di dominio rosso, avrebbe normalizzato anche lui così come non aveva permesso a Gesualdi di toccare pallino. Senonché Renzi si rivelerà non essere proprio tutto chiacchiere e distintivo dell’Agesci, l’associazione degli scout cattolici, come qualcuno lo definisce.
Con le buone, ché sa anche negoziare, e con le cattive, che se s’arrabbia sa essere spiacevole, il più giovane presidente provinciale d’Italia si fa approvare un bel piano per promuovere il territorio a livello culturale e turistico, mette a un gruppo di giovani scout a lavorarci sopra, e ti sforna il Genio fiorentino, un cartellone di eventi e manifestazioni cui non manca mai. Un taglio di nastro via l’altro, una vernice via l’altra, interviene, parla, fa. Costruisce giorno dopo giorno un’immagina che esce dalle quattro mura dell’autoreferenzialità fiorentina, si muove come un frullino nella sonnacchiosa politica del capolugo, che a Roma è abituato a contare poco e quel poco sempre obbedientemente nella catena di comando dell’ex-Pci. Il protagonismo di Renzi si nota e infastidisce: i padroni di una città deindustrializzata – le varie cerchie diessine nelle loro infinite articolazioni in enti pubblici, municipalizzate, persino nelle democristiana Cassa di Risparmio – lo guardano con una certa supponenza.
Qualcuno lo chiama con sarcasmo col nome stesso della rassegna che ha creato: il Genio fiorentino. Lui s’avvicina a Francesco Rutelli, frequenta il suo giro romano quando è ministro della Cultura, gli va a preparare visite ufficiali in America. E non smette mai di intessere rapporti. In quell’occasione, siamo nel 2006, diventa amico dei Kennedy e con loro dei Marcucci, dell’editrice Marialina, già Videomusic e poi vicepresidente regionale coi Ds, ma soprattutto di Andrea, già deputato liberale e poi popolare. Scrive un libretto, Da De Gasperi agli U2, in cui comincia a chiarire il suo pensiero: un mix di cattolicesimo solidaristico con una forte carica innovatrice ma soprattutto una decisa rivendicazione generazionale. Un giorno buca le cronache nazionali dicendo che certi inavomibili dirigenti del suo partito vanno «rottamati», guadagnandosi la pubblica indignazione di Anna Finocchiaro. Quando nel 2008 manifesta l’intenzione di concorrere alle primarie cittadine, un’assessora comunale diessina gli dice chiaro che deve mettersi in codo, che deve aspettare il suo turno.
Faccia, da bravo, il suo secondo turno in provincia. Renzi fa spallucce, alla sua maniera. Qualcuno ha intuito: da Roma cambiano le regole in corsa, poi ci ripensano. Quando le fanno, i soloni del Pd fanno l’errore di dividersi e lui se li mangia in un boccone solo, vincendo al primo turno. L’establishment diessino ha capito ma in ritardo. Da Palazzo Vecchio, dove viene eletto nel 2009, si vede Roma. Dalla vecchia stazione ferroviaria del Granduca Leopoldo dove, da presidente provinciale, riuniva gli studenti per l’allora ministro Beppe Fioroni, poi suo acerrimo nemico, calibra la sua sfida generazionale al patto di sindacato che governa il Pd. È il novembre del 2010. La discesa verso Roma è cominciata. Il resto, fatto di vittorie anche quando hanno preso il segno della sconfitta, è storia recente: primarie, Pier Luigi Bersani, congresso, Enrico Letta, rottamati e rottamandi. Renzi corre veloce.