“Una generazione pianta un albero. La generazione successiva si gode l’ombra”. Antico proverbio cinese (non applicabile all’Italia). Ma se ne comprendi il senso, allora hai fatto la metà della strada per tagliare il traguardo del successo a Pechino e nei suoi 10 milioni di chilometri quadrati di dintorni.
Lo dimostrano le storie di quattro aziende italiane che hanno resistito alla crisi, non si sono fatte acquistare dai fondi o dai colossi internazionali, non hanno limitato il loro sguardo agli angusti – sempre più – confini nazionali. E ce l’hanno fatta.
Storie raccontate a Milano, il 5 febbraio, al settimo Forum della Fondazione Italia-Cina.
ELDOR, I BRIANZOLI DI DALIAN
Storie come quella di Eldor, Elettronica Orsenigo, un paesino dell’alta Brianza da cui tutto è partito oltre 40 anni fa. “Facevamo apparati per le tv – spiega il presidente Pasquale Forte – poi con l’avvento dei cristalli liquidi abbiamo dovuto riconvertire la produzione: oggi ci occupiamo di bobine intelligenti per l’industria automotive. Si tratta di apparecchi che consentono la combustione cilindro per cilindro e la misurano, con tutto ciò che ne consegue in termini di efficienza energetica”. Eldor approda in Cina nel 2009, e nel 2012 completa la prima fase di un importante insediamento produttivo nella città di Dalian, “una delle meno inquinate, un grande porto dove venti e mare rendono la vita sostenibile – continua Forte – la nostra sede è costruita in stile italiano; a maggio scorso è iniziata la produzione, 8 linee per 50 milioni di pezzi, 300 dipendenti e il fatturato che nel 2014 toccherà i 45 milioni. Abbiamo gli ordini da Bmw per la Cina fino al 2022”. Dal 2002, dismesso il business dei tubi catodici, la crescita è stata vertiginosa, il 20% all’anno, da zero a 200 milioni di fatturato. “Il successo? – continua Forte – è dato dalla equazione velocità più cambiamento. Oggi montiamo le nostre bobine sulle auto giapponesi, è una cosa che non credevo possibile”.
IL LINGUAGGIO DELL’ARCHITETTURA
Se il maggiore ostacolo nell’approcciarsi al Dragone è la comunicazione, Massimo Roj, lo ha superato usando “il linguaggio dell’architettura”. Roj è il presidente e amministratore delegato del Progetto CMR, società specializzata in urban planning, costruzioni, interior design. L’avventura cinese inizia nel 2003, a Tianjin, una città industriale del Nord. “I primi concorsi sono stati uno choc – racconta Roj – nel 2003 abbiamo presentato un progetto per la riqualificazione del centro industriale di Tianjin, 700mila metri quadri da distruggere e ricostruire. Siamo arrivati secondi, e così al successivo concorso. Il terzo lo abbiamo vinto, ma poi lo sponsor, Deutsche Bank ha premiato, inspiegabilmente, una società tedesca. O meglio, non inspiegabilmente: fu chiaro da subito in cosa noi italiani siamo carenti: nel muoverci come sistema, come Paese”. Alla fine, comunque, le competenze hanno la meglio: nel 2004 gli italiani fanno passare il concetto nuovo di funzioni miste nelle medesime aree e danno un nuovo aspetto al Palazzo dell’Università di Tianjin. “Abbiamo lavorato a stretto contatto con il preside della Facoltà di Architettura: lui non parlava inglese, noi non sapevamo il cinese. Abbiamo comunicato con l’architettura e ci siamo capito tanto a fondo che ancora oggi ospitiamo studenti del secondo anno del Master per formarli in sei mesi”. Se basta per vincere i concorsi, il linguaggio dell’architettura non è sufficiente quando si tratta di realizzarli: in quella fase alcune cose spariscono, come la sostenibilità ambientale e certi dettagli estetici; altre volte è l’idea preconcetta che un italiano debba progettare volte e colonnati a vincere su idee avveniristiche. “Ai cinesi piace molto – continua Roj – tanto che per uno dei nostri unici due clienti italiani abbiamo ricostruito Firenze nel Florentia Village Jingjin Outlets, alla cui inaugurazione sono accorse 10 milioni di persone”. E poi stadi, alberghi di lusso, materiali locali e know how italiano. In base all’idea che il Paese abbia bisogno di “less ego, more eco” (meno ego e più eco).
RAGGI DI SOLE OLTRE LO SMOG PECHINESE
Coveme, azienda leader nella produzione di componenti per moduli fotovoltaici, ha aperto il primo stabilimento produttivo in Cina nel 2011. “È un Paese che ha una cultura del lavoro e delle relazioni molto diverse dalla nostra – spiega il presidente Pier Luigi Miciano – è difficile entrare in sintonia. Il nostro successo è dovuto al fatto che la vendita sia tutta cinese, quindi a un sistema di relazioni strutturato ad hoc. Ecco, direi che il segreto è questo: trovare bravi professionisti cinesi in grado di comprendere la cultura occidentale. O magari il contrario, bravi italiani che conoscano a fondo lingua e usanze locali. Shanghai è un substrato favorevole per noi, è una città molto aperta e contaminata dall’Occidente”. Altro fattore critico è quello finanziario. “Il mercato – continua Minciano – cresce furiosamente, si investe per raddoppiare le capacità produttive al 2017, arrivando a 70 giga. Un vero dominio cinese nel mondo nella produzione di energia da fonti eoliche. Noi puntiamo allo sviluppo di nuove tecnologie in partnership con aziende italiane”. Il progetto, a cui Coveme lavora da due anni, è realizzare un pannello fotovoltaico con rese più alte e completamente diverso dagli altri attualmente sul mercato.
QUANDO IL PROSCIUTTO E’ DI LUSSO (E ITALIANO)
Helmuth Senfter, presidente di Grandi Salumifici Italiani Cina, in Cina è arrivato nel 1995 con la Shanghai Yihua Food. “Fatturiamo 665 milioni di euro – spiega Senfter – Gsi è un’azienda multibrand nata dall’aggregazione di piccole realtà che volevano competere su scala globale. Quando siamo arrivati nel Dragone il fatturato era di 66 milioni, e ci eravamo persi la crescita che aveva interessato altre aziende alimentari italiane”. La Cina era dunque una valida soluzione per aumentare i volumi senza fare la guerra su prezzi in Italia e senza crescita organica che erode margini. “Le condizioni macro erano molto favorevoli – spiega Senfter – Basso livello di competizione, domanda superiore all’offerta e aziende poco efficienti. Investimenti stranieri molto agevolati, tasse annullate per i primi tre anni in utile e tempi accelerati: solo 3 mesi per mettere in piedi tutto. Però non si potevano, e non si può ancora, esportare salumi dall’Italia, prosciutto a parte”. Dunque, Gsi trova un partner, un’azienda statale con un management dinamico, Shineway group, che però aveva un solo prodotto con una capacità di 600 tonnellate. “Oggi è leader in Cina ed è noto per aver acquisito una società americana, nella maggior operazione di M&A del Continente – continua il presidente del gruppo italiano – Noi gli abbiamo fornito il know-how, il nostro tasso di crescita è stato del 60% all’anno fino al 2007. Poi, abbiamo scelto, contestualmente alla privatizzazione della cinese si sciogliere la jv e il tasso di crescita si è abbassato al 22%, ma possiamo consolidarlo in Italia”. Il passaggio è stato netto, dal marchio Marco Polo che produceva prodotti chinese style per il mercato di massa, a Casa Modena e Senfter, che fanno prodotti italian style per mercati di nicchia, “con cui i cinesi non possono competere”, dice Senfter. Perché la Cina, se quanto già detto non fosse stato abbastanza convincente?. “Ad esempio – conclude Sefter – per una pressione fiscale al 25%, e un ridotto cuneo sociale, del 40%”.