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I rischi che corre Letta

Renzi chiede a Letta di essere più attivo e meno galleggiante. La Confindustria, insoddisfatta delle misure governative anticrisi, è ultimativa: o si cambia passo o è meglio il voto. Alfano coi suoi neocentristi e il residuo di ciò che resta della frantumata Scelta civica premono sul Pd perché dia sostegno al governo con più decisione, altrimenti non vale più la pena proseguire con la linea delle piccole intese ed è preferibile andare al voto il 25 maggio assieme alle europee.

Da tali posizioni, dichiarate dai singoli interessati e non espressione di interpretazioni esterne più o meno gradite, traspaiono contraddizioni non lievi. Salvo Renzi, tutti gli altri hanno fatto, del concetto di stabilità, un mantra; hanno glissato sulla circostanza che la scissione del Popolo della libertà non era ininfluente sulla tenuta parlamentare dell’esecutivo; addirittura vanno sostenendo da mesi che, con le piccole intese, la maggioranza alla camera era comunque assicurata e persino rafforzata in quanto più coesa e attiva che non ai tempi delle grandi intese, così sforando ogni logica paradossale e giustificazionista dei propri errori.

Ora che la maggioranza del governo Letta si è ristretta, accade che, per varare un qualsiasi provvedimento d’un qualche rilievo, si ricorra sistematicamente alla fiducia. Che è così diventata – impropriamente – l’unico strumento atto a legiferare: una forzatura istituzionale che mortifica la funzione specifica delle camere di presentare, valutare, confrontare e votare proposte di legge d’iniziativa delle assemblee, e non solo di mera ratifica di una legislazione  marcata governo (o burocrazia di questo o quel ministero).

Se si vuole, invece, restituire alle camere, integralmente, la funzione legislativa, anche facendo salvo il diritto del governo a produrre leggi, non si può ritenere che una maggioranza risicata sia migliore e più funzionale di una maggioranza più estesa. È perciò stupefacente che un qualsiasi partito minore, componente di una coalizione di governo non propriamente ampia e stabile, ponga degli ultimatum al partito costituente il principale e più forte pilastro dell’esecutivo. Una cosa è rivendicare il diritto di esprimere un’opinione diversa da quella del partito maggiore e cercare di trovare una ragionevole ed equilibrata mediazione; altra è pretendere dal partito più forte un aut aut del partito minore, altrimenti si scioglie l’incanto della coalizione governativa.

Insomma, come dicevano gli antichi, est modus in rebus, cioè c’è modo e modo di richiedere il rispetto delle proprie idee (e, viceversa, di quella che appare prevalente). Soprattutto quando, contestualmente, ci si propone come ago di una nuova bilancia, marcata centro-destra, dalla quale si proviene, ci si è distaccati e ci si prefigge di tornare gagliardamente perché c’è nell’aria un profumo di vittoria. Ciò vale per il Ncd specie nei quartieri alti. Quanto a ciò che ancora si chiama Scelta civica, con una segretaria che si pronuncia apertamente per correre in soccorso del Pd, compete a questi ex montiani prendere una decisione: dicano in parlamento che il proprio presente lo ritengono insoddisfacente e modifichino l’intenzione di buttarsi a sinistra. A meno che non pretendano di costituire il seme di un nuovo terzo polo com’era nelle corde della categoria degli ottimati che, nei fatti e per gli stessi consensi raccolti nell’elettorato, hanno dato il colpo di grazia al crollo del centro politico in Italia.

 



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