Non so voi, ma io son cresciuto sentendomi ripetere che da un cinquantennio, nelle cose economiche, non si fa altro che privatizzare i guadagni e socializzare le perdite. Ciò spiega perché sia cresciuto con una certa propensione all’irritazione che si riaccende ogni volta che vedo i miei redditi tassati oltremisura perché, a furia di socializzarle, queste perdite, ci stiamo perdendo tutti.
Privatizzare i guadagni e socializzare le perdite, a ben vedere, è stato il leit motiv della politica economica dell’Occidente contemporaneo. E se uno volesse dirla tutta, e uscire dall’ipocrisia, dovrebbe anche riconoscere che tale principio non ha funzionato solo per i grandi salvataggi bancari, ma è valso a tutti i livelli della società, dalle banche alla previdenza, passando per le imprese e il mercato del lavoro. Tutti, salvo rarissime eccezioni, hanno munto, chi più chi meno, la mammella pubblica. E chi dice il contrario sospetto sia un ipocrita, voglio sperare in buona fede.
Dal dopoguerra in poi, il neonato mercantilismo europeo ha spostato quote crescenti di ricchezza dal bilancio dello Stato ai soggetti privati della società. E anche questo non serve essere storici dell’economia per saperlo. Basta guardare come e quanto è cresciuta la spesa pubblica in rapporto al pil nel tempo. Una scelta assolutamente coerente con i bei tempi andati e con la logica dei due blocchi, e di certo incoraggiata dagli anni ruggenti del dopoguerra, quando gli stati avevano tutto da ricostruire e una gran voglia di farlo.
Finché l’economia girava, ossia per un ventennio circa, il costo di tale trasferimento è stato compensato dalla crescita del prodotto. Ma poi, aumentando i diritti (e le corrispettive elargizioni) e con essi l’appetito delle popolazioni, la privatizzazione dei guadagni ha fatto crescere il costo della socializzazione delle perdite. Sono esplose le spese statali. Con la conseguenza che è diventato sempre più difficile e costoso finanziarle.
La crisi del 2008, da questo punto di vista, ha toccato l’apice della socializzazione delle perdite. Salvare le banche imbottite di debito privato sostanzialmente insolvente, che avevano ampiamente privatizzato guadagni per un settennio, ha costretto gli stati e le loro banche centrali a caricarsi di una quantità inusitata di debiti mai visti in tempo di pace. E questo ha provocato una reazione. Fra i cittadini, che hanno dovuto pagare di tasca propria tali salvataggi, subendo durissime politiche di austerità. Ma anche fra gli stati.
Sicché ora vuole affermarsi un altro principio: privatizzare le perdite e socializzare i guadagni. Che detto così sembra fantastico ai nostri cittadini arrabbiati e ai nostri stati indebitati. Ma solo perché di questa rivoluzione copernicana si vede solo una parte, non tutto l’insieme.
Privatizzare le perdite e socializzare i guadagni: quale altro obiettivo si pone la battaglia per il bail in portata avanti dalla Bundesbank e ormai anche da quasi tutta l’Unione europea? Con l’avvertenza che i guadagni equivalgono a meno spese per i pagatori di tasse, non più soldi in tasca, e a una maggiore (presunta) stabilità finanziaria.
Ecco però che appena l’opinione pubblica sente parlare di bail in, vuoi perché tutto ciò che proviene dalla Germania in questo periodo storico puzza di fregatura, vuoi perché si pensa con terrore al proprio gruzzoletto, scattano, rabbiosissime, le polemiche.
Prima di arrabbiarsi però sarebbe saggio farsi una domanda: le perdite future delle banche devono essere pagate dalle nostre tasse o da chi ha interessi in quelle banche?
Prendetevi un po’ di tempo per rispondere e pensateci su. Perché questa è la domanda del futuro sulla quale si stanno accapigliando gli stati europei, che sta sotto la vicenda dell’Unione bancaria, e sotto quella ancor più delicata: ossia la possibilità che uno stato faccia default, o che si arrivi a prelievi forzosi per evitarlo. Tutti discorsi che vedono la Bundesbank in prima linea, e quindi, comprensibilmente, diventare il ricettacolo di un coacervo di antipatie. Fra i tanti difetti, la Buba ha pure quello di essere tedesca.
Ma che questa sia la vera domanda del nostro tempo, dovrebbe essere chiaro a tutti.
Proverò quindi, nel mio piccolo, a chiarire i termini della questione. Per farlo mi servirò di un recente intervento di Andreas Dombret, banchiere centrale della Bundesbank, dal titolo “Lo stato come un banchiere?”, recitato il 28 gennaio scorso a Francoforte presso l’Institute of monetary and financial stability.
Il punto focale è che viviamo un certa confusione, dice Dombret. Stato e mercato, per il tramite delle loro banche, sono sempre più interconnessi, e poiché entrambi hanno sofferto una crisi di fiducia, dal 2008 in poi, il risultato è che l’economia non decolla. Lo stato banchiere, vuoi perché direttamente esposto verso le banche, vuoi perché le banche hanno aumentato l’esposizione verso il debito sovrano, è un fattore di freno dell’economia, dice Dombret, oltre che una seria minaccia alla stabilità finanziaria.
“Il collegamento fra stati e banche – osserva – è diventato una sfida per la stabilità finanziaria, malgrado ciò sia la conseguenza di misure adottate proprio per assicurarla”. Un simpatico paradosso. Ma “confondere la linea fra il rischio sovrano e il rischio bancario – sottolinea – deforma l’economia di mercato e il nostro modo di pensarla”.
Ristabilire i confini richiede perciò “una maggiore connessione fra rischio e responsabilità”, perché “se lo stato si accolla una significativa quota di perdite in caso di default di una banca, le banche sono incoraggiate a prendere su di sé più rischi”. Il caro vecchio moral hazard.
Come se ne esce? “La mia opinione – dice – è che la soluzione debba essere trovata nel restituire allo stato il compito di disegnare le regole nelle quali il settore privato opera. Questo significa tornare al ruolo dei padri fondatori dell’economia sociale di mercato”. Ecco l’ordoliberalismo, la teoria fondativa della Bundesbank, potremmo dire.
Come si vede, in campo c’è una specie di rivoluzione culturale, che poi è insieme un salto nel passato e nel futuro. E nel futuro immaginato da Dombret c’è spazio per ciò che prima non sembrava possibile: ossia che le banche possano fallire senza che ciò comporti, se non in ultima istanza, il ricorso ai soldi pubblici.
Ciò richiede credibilità. Deve esistere, quindi, un modo per minimizzare i costi del salvataggi, da una parte, e deve esistere un sistema di norme che regoli i fallimenti.
Il primo punto, spiega Dombret, si può ottenere con la regolazione. Quindi le norme di Basilea III che, innalzando i requisiti di capitale per le banche, le rende automaticamente meno profittevoli, e quindi meno esposte al rischio. Il capitale costa di più di un bond subordinato, e quindi produce meno profitto, si potrebbe dire.
Il secondo punto è l’Unione bancaria. Il meccanismo di risoluzione, unito al fondo di salvataggio, che prima o poi verranno approvati (vedremo come), ma soprattutto il meccanismo di sorveglianza, già operativo e che ha già disegnato con molta chiarezza la visione delle cose della Bce. Per dirla con le parole di Draghi di qualche settimana fa: le banche devono poter fallire, se vogliamo restituire credibilità al mercato.
E qui torniamo alla domanda iniziale: chi deve pagare?
Il principio del bail in, nella visione della Bundesbank ma anche della Bce, scarica i costi dei salvataggi prima sugli azionisti, poi sugli obbligazionisti, quindi sui correntisti non assicurati. Quindi un’applicazione su larga scala di questo principio condurrebbe a un sicuro allontamento dei risparmiatori dalle banche, a meno che non siano disposti a correre il rischio di perdere i propri soldi.
E’ un male? Non lo so. So soltanto che spesso la pressione degli azionisti di una banca per avere profitti crescenti è stata una molla potente per incoraggiare il moral hazard, specie per le banche troppo grandi per fallire. Se costoro, che hanno guadagnano quando i tempi erano buoni, saranno chiamati a pagare si verificherebbe una chiara privatizzazione delle perdite.
Il principio del bail out scarica invece i costi dei salvataggi genericamente sul bilancio dello Stato. Socializza le perdite. E, in quanto tale, toglie ossigeno fiscale alla contabilità nazionale. Per salvare una banca, tanto per dire, si può esser costretti a tagliare altri servizi.
Se il problema lo poniamo in questi termini, il sogno della Buba (e della Bce) assume un altro significato.
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