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Il tabù (previdenziale) nascosto nel cuneo fiscale

Se c’è una cosa sulla quale sono tutti d’accordo in Italia è che bisogna abbassare il cuneo fiscale. Fateci caso: ogni volta che scatta l’espressione “cuneo fiscale” le teste ondeggiano contrite, gli occhi si riempiono di sdegno, le voci si alterano, a rivendicare questo quasi primato italiano, che zavorra il nostro costo del lavoro.

Ne segue la tiritera sulla competitività, i blabla sui poveri redditi italiani falciati da una tassazione ingiusta, sull’assurdo che quello che va in tasca al lavoratore medio costi il doppio al povero datore di lavoro, per arrivare poi al capolavoro di una legge di stabilità ingiuriata da tutta Italia perché dopo tanto discorrere è arrivata a mettere in tasca ai lavoratori qualche decina di euro in più. L’anno.

Stanco di dibattiti inconcludenti, e consapevole che il nuovo governo si giocherà le sue carte migliori proprio sul cuneo fiscale (gli imprenditori rumoreggiano), mi sono armato di santa pazienza e ho provato a capirci qualcosa. E per capirci qualcosa è buona norma partire dalle definizioni.

Quella di cuneo fiscale potremmo sintetizzarla così: per cuneo fiscale s’intende la somma delle imposte (dirette, indirette, contributi previdenziali) che pesano sul costo del lavoro, sia per quanto riguarda i datori di lavoro, sia per quanto riguarda i dipendenti e i liberi professionisti.

Traduco: chi lavora deve pagare le imposte dirette e indirette allo Stato e in più deve versare i contributi all’Inps o ad altra cassa previdenziale. Il totale di queste detrazioni (che quindi corrisponde al mitico cuneo fiscale) viene sottratto al reddito lordo. Quindi più è elevato il cuneo, più basso è il reddito netto.

Per capire ancora meglio dobbiamo ricordare che al cuneo partecipano sia i lavoratori che i datori di lavoro. Secondo le ultime rilevazioni Istat che ho trovato, che risalgono al 2010, il totale del cuneo fiscale in Italia pesa in media il 46,2% sul reddito lordo. Quindi 100 euro di reddito lordo provocano entrate per lo Stato sotto forma di imposte dirette e indirette e contributi per 46,2 euro.

Questa percentuale viene pagata per 25,6 punti dai datori di lavoro e per 20,6 punti dai lavoratori. Quindi abbassare il cuneo fiscale potrebbe/dovrebbe essere una situazione che fa piacere a tutti. Ma è chiaro che molto dipende da come si distribuiscono gli eventuali tagli.

Si può privilegiare, ad esempio, la quota di imposte e contributi a carico delle imprese (ad esempio agendo su Irap e aliquote contributive) o si possono provare a limare le imposte a carico del lavoratore (ad esempio l’Irpef o la sua parte di aliquote contributive). Il governo, insomma, può decidere chi, fra imprese e lavoratori, godrà dei maggiori benefici dall’eventuale taglio. Ma prima ancora il governo dovrebbe fare una scelta di sistema.

Abbiamo visto, infatti, che il cuneo si compone di imposte dirette e indirette e contributi previdenziali. Finora sembra che dietro la generica petizione di principio che bisogna abbassare le tasse sul lavoro, si sia finito per creare (volutamente?) l’equivoco che il lato del cuneo sul quale si può e si deve agire sia quello delle imposte dirette o indirette.

Mentre la parte previdenziale del cuneo è rimasta in ombra. Anzi, sembra quasi un tabù.

Di sicuro è molto più popolare parlare di riduzione dell’Irpef o dell’Irap. Ma la verità, che è scritta nei numeri, è che il peso delle imposte contributive (sono imposte anche i contributi, meglio sottolinearlo) è assai rilevante sul cuneo italiano.

Uno studio recente della Commissione Ue, basato su dati Ocse, (Tax burden on labour), conferma che il cuneo fiscale italiano è fra i più alti d’Europa e nota che la somma fra i contributi pagati dal lavoratori e quelli pagati dall’impresa pesa, sui cosiddetti salari bassi (quelli che non superano il 67% delle retribuzione media) circa il 70% del totale del cuneo. Quindi, sulla media di circa il 47% di cuneo fiscale italiano, circa 32 punti sono contributi e 15 punti sono imposte dirette o indirette.

Vale la pena rilevare che di questi 32 punti di cuneo previdenziale, circa 25 sono a carico delle imprese e il resto sulle spalle dei lavoratori. E ciò spiega perché le imprese chiedano a gran voce che si riduca il loro carico contributivo. Sempre perché la competitività, blablabla.

Se questo è il quadro, rimane addirittura incomprensibile il motivo per il quale il nostro dibattito pubblico sul taglio del cuneo fiscale si concentri sulle imposte dirette e indirette, mentre non si accenna alla parte che pesa di più: i contributi.

Perché?

Per cercare una risposta sono andato a rileggermi gli ultimi dati disponibili sulla spesa previdenziale. Rispetto ai dati del 2010, che già avevo analizzato, ho trovato quelli del 2011 sul sito dell’Istat. Qui leggo che la spesa per prestazioni sociali, che per un buon 85% è rappresentata dal pagamento delle pensioni, nel 2011 è arrivata a 299,032 miliardi, a fronte dei quali l’incasso da contributi sociali (parte rilevante del nostro cuneo fiscale) è arrivato a 229,002: quindi c’è tuttora un deficit sulla previdenza che vale oltre 70 miliardi.

E da dove si prendono questi 70 miliardi? Dalle altre imposte, dirette e indirette, ossia dalla cosiddetta fiscalità generale. Il che significa ancora meno risorse per il taglio delle imposte dirette e indirette. Il cuneo previdenziale, di conseguenza, ha un peso relativa persino superiore a quello finora considerato.

Quindi ci troviamo nella situazione che non solo dobbiamo sopportare un cuneo fiscale fra i più gravosi d’Europa, ma non possiamo neanche tagliare i contributi perché dobbiamo pagare una cifra spropositata di prestazioni sociali. Anzi dovremmo persino aumentarli, visto che i contributi incassati non bastano a coprire il deficit.

Per la cronaca, i dati 2013 mostrano una spesa per prestazioni sociale in costante crescita. I quasi 300 miliardi del 2011 sono diventati 320. Quindi grossomodo 260-270 miliardi sono pensioni.

Ci possiamo permettere di pagare quest’enormità alla rendita sottraendola al reddito?

I numeri ci dicono che è il cuneo previdenziale la vera zavorra del costo del lavoro. Chiamarlo fiscale è solo un grazioso mascheramento utile a sviare l’attenzione dal problema di fondo: se, vale a dire, possiamo continuare a pagare le pensioni che stiamo pagando.

Il buon senso sembra suggerire che le pensioni siano insostenibili oggi, non domani.

Avrete notato che ormai i politici hanno una risposta standard alla domanda se serva o no una riforma delle pensioni. “Scherziamo?”, rispondono indignati, “sono stati fatti tanti interventi e abbiamo il sistema più sostenibile del mondo”.

In questa risposta c’è una mezza verità. La sostenibilità del sistema pensionistico italiano di cui parlano i politici è quella futura, ed è stata costruita sulle spalle di chi lavora oggi e che domani, ammesso che maturi i requisiti, avrà una pensione misera.

Della sostenibilità presente della previdenza italiana nessuno si occupa e anzi se ne nascondono i guasti.

La verità è che di tale sostenibilità presente continuano a farsene carico i lavoratori e i datori di lavoro, che, come abbiamo visto pagano un salatissimo cuneo previdenziale per finanziare il sistema della ripartizione previdenziale, senza che neanche sia sufficiente. Quindi anche il resto della collettività paga un prezzo ai rentier previdenziali.

Se fossero sinceri, i nostri politici dovrebbero rispondere diversamente. “Abbiamo riformato le pensioni per rendere sostenibile il futuro”, dovrebbero dire. “Ma adesso dobbiamo occuparci di rendere sostenibile quanto di disastroso si è fatto in passato”.

Ma queste parole non le sentirete mai.

Chi ha avuto ha avuto.

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