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Perché l’Italia deve ripartire dal ruolo delle donne

Donne trader

La riflessione settimanale si destreggia su due questioni alla ribalta :

1) La sequela di volgarità che perseguita le signore che occupano sia scranni istituzionali che manageriali

2) la staffetta politica presumibile che si vocifera ci attenda per l’inizio del carnevale

Allora cominciamo dalla numero 1) Natalia Aspesi con l’ilarità che la distingue come penna eccellente, ha introdotto una tesi molto interessante sulla quale ci invita tutti e tutte a riflettere. L’ambaradan disgustoso sessista che si accanisce sulle donne in politica è il risultato di un complesso di inferiorità dei signori uomini che hanno esclusivamente occupato per secoli i luoghi del potere politico e oggi, pensando di non meritarsi le attenzioni piacevoli femminili, sono costretti a pagare con danaro o addirittura poltrone le gentili officianti e parenti.

Le signore che ci arrivano per conto loro, alle poltrone, devono essere per forza un nuovo tipo pericoloso di meretrice esente da baratti sessuali: quindi meritevoli di insulti. E’ una tesi sufficientemente lucida che va corroborata con un dato ineluttabile e culturalmente- hainoi ! – miserabile in cui la nostra bell’Italia ha ancora a che fare. A proposito di uomini versus donne.

Il principio di equilibrio di entrambi i generi negli organi di governo nazionali e locali , non si è rivelato idoneo a garantire il superamento della sotto-rappresentanza femminile nella composizione degli organi elettivi o esecutivi: ma ciò, più che esito di un vuoto normativo che neanche l’ultima legge del 23 novembre 2012, n. 215, recante “Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali, ha colmato ,deve ritenersi l’effetto di una impostazione culturale vetero maschilista ancora dominante in Italia (Il Global Gender Gap Report 2013, pubblicato dal World Economic Forum, che misura annualmente il divario tra uomini e donne in termini di pari opportunità, colloca l’Italia al 74° posto (su 134 nazioni prese in esame), superata da Malawi e Ghana.

Dunque “che sa da fa’”? Armarsi ancora di più e tostamente di buona volontà,battersi per la riforma della giustizia,di una legge elettorale che ridia voce agli elettori ed elettrici, rilanciare un piano di sviluppo economico ed industriale. Facendo lobby sulle proposte per aiutare il nostro bel Paese che rimane anche e ancora bello perché ci sono italiane meritevoli di rappresentarlo con tenacia là dove alla loquacità,la tendenza al grandioso, menzogna e noia, prevale anche con fascino discreto femminile, la competenza e la proposta ragionevole, la visione e la gestione di un sistema-Paese – ne parliamo successivamente dettagliatamente – in cui le donne sono l’essenza di una nuova stagione consapevoli della dignità che deve essere loro riconosciuta e rispettata.

Questione numero 2) Staffetta nel Governo sì o no? No noi pensiamo proprio che non sia questo il problema. In queste ore Letta dalla Russia senza evidente poco amore interloquisce con Renzi, il quale pare aver di colpo dismesso i panni del decisionista e preso due settimane di tempo per pensare se far saltare questo Governo o no. Il rischio è che Letta comunque continui ad essere refrattario al cambiamento e Renzi che ha capito che affronterebbe una grande incognita sotto la pressione di aspettative enormi, prenda ancora tempo.

E’ diventata insopportabile questa situazione in cui il Paese è debole nel momento in cui la gente vuole e chiede una vera e propria metamorfosi delle scelte politiche di fondo, come ha auspicato anche Giorgio Napolitano. Basta austerity ad ogni costo,mentre il mondo inondato di liquidità rischia lo scoppio di un’altra bolla finanziaria come quella del 2007, l’Europa – che se non è in deflazione poco ci manca, nonostante le generose rassicurazioni di Draghi – deve smetterla con l’ossessione di politiche di bilancio che soffocano ogni possibilità di ripresa.

E però non è solo Napolitano che lo deve dire, è Letta che lo deve mettere in pratica perché ai nostri partners l’indicazione del Quirinale, per quanto autorevolmente espressa, non vale quanto quella del governo. Possibile che debba essere la Confindustria a dettare l’agenda del Governo? Squinzi ha indicato proprio in Napolitano il destinatario ultimo dell’accorato appello che gli imprenditori italiani rivolgono alla politica.

La ripresa non è affatto partita – al massimo si può parlare di fine della recessione – e lo ha detto anche oggi Visco , senza interventi radicali quella parte di output perso dal 2008 ad oggi (oltre 9 punti di pil, di cui più della metà dovuti alla definitiva cancellazione di realtà produttive) non potrà mai più essere recuperato. Letta e il suo Governo deve trovare lo spirito giusto per affrontare quella che rimane l’emergenza socio-economica della più grave crisi della sua storia repubblicana.

Emergenza che certo non si affronta portando a casa 500 milioni dagli emirati arabi – con quella cifra comprano, tanto per dire, l’1,2% dell’Eni – o mettendo sul piatto i 250 milioni con cui il consiglio dei Ministri ha deciso di finanziare il “piano 2014 per la ricerca e l’innovazione”. C’è bisogno di ben altro. Il nostro sistema produttivo è ormai ad un bivio – quello della sua definitiva internazionalizzazione – e il tempo per svoltare dalla parte giusta è ristretto a quest’anno e, forse, ad altri 12-24 mesi. Ci giochiamo tutto. La disfida è pericolosa, perché la posta in gioco è altissima. Il nostro fatturato estero, pari a circa un quarto del pil complessivo, è nominalmente in capo ad oltre 200 mila imprese, ma la metà di esso è fatto da un migliaio di soggetti che superano i 50 milioni.

Calcoli più o meno ottimistici dicono che la vera internazionalizzazione poggia sulle spalle di 12-15, al massimo 20 mila imprese. Troppo poche per sostenere un Paese di 60 milioni di abitanti abituato a vivere al di sopra delle sue possibilità e ora in astinenza di quelle risorse pubbliche che fin qui hanno consentito di reggere, direttamente o tramite i consumi interni, il restante 75% del pil. Bisogna che il fronte del business globale si allarghi. E lo si può fare, perché in giro per il mondo c’è una enorme liquidità, capitali che sono molto interessati all’Italia. Una volta lo erano ai consumatori e alle consumatrici italiane, oggi guardano ai nostri prodotti d’eccellenza, ai marchi del made in Italy, al know-how delle multinazionali tascabili leader di nicchie interessanti.

Ma questa “domanda di Italia” va intercettata, capita e assecondata. E di conseguenza va rimodulata l’offerta. Dunque significa avere una politica industriale, definire un nuovo e attuale modello di sviluppo “Italia”. È in grado questo governo, il cui azionista di maggioranza – il Quirinale – a fronte di risultati scarsi non sembra poterlo proteggere ulteriormente, di avere il respiro così largo da fare scelte neppure all’ordine del giorno di un dibattito politico sempre più umiliante? Dobbiamo pretendere che ci sia una risposta. Coraggio dunque : gli italiani e le italiane vogliono sostanza concreta.

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