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La polvere del 1914 non s’è ancora posata

Mi ha colpito molto l’articolo di Mario Sechi, oggi sul Foglio. Fa molto pensare. Perché prova a misurare il vestito socio-politico di oggi appiccicandogli sopra l’abito del 900 che la storia ci ha consegnato, in particolare quello degli anni che precedettero il primo conflitto mondiale. Sembra che, di spalla, caschino proprio uguali.
Ed è utilissimo perché, osservatori 2.0, più o meno attenti, sepolti dalle montagne di tweet, abbiamo dimenticato la storia. Quella del novecento in modo particolare, anche perché al Liceo non si fa mai – siamo a Maggio ed è meglio prepararsi per gli imminenti esami – recita il refrain. Provate a chiedere al vicino di posto sul treno se conosce da chi era formata la Triplice Intesa. Se va bene, vi risponde: “Allora, beh erano tre…”.

– C’è qualcosa nell’aria – ammonisce Sechi. C’è il 900 insoluto che bussa all’oggi. Chiede di diventare attualità cento anni dopo, come se si fosse dato appuntamento col proprio anniversario.
La storia che è fatta di tensioni geopolitiche, risultato di contraccolpi, di spinte e controspinte, di ragioni economiche, concezioni dello stato e dell’impero, dell’ambizione di uomini, della strumentalizzazione di questioni etniche e religiose, è però fatta anche di tantissimi episodi, con pochissimi protagonisti, che giocano un ruolo decisivo nell’evolversi del complesso processo storico.
E nel rileggere l’articolo di Sechi mi è tornato alla mente quell’Aprile 1917. A Zurigo Владимир Ильич, per tutti uno dei tanti russi esuli e insignificanti che aveva trovato riparo nella neutrale Svizzera, affittava una camera modesta presso un modesto ciabattino. Vestiva sempre allo stesso modo: un brutto abito e le stesse malandate scarpe. Si recava ogni giorno in biblioteca, puntuale come un orologio. E in Svizzera questo non è un dettaglio. Tranne quella mattina, però. Quando il suo cammino incrociò quello della Storia. Quando intraprese il viaggio a bordo di un vagone piombato alla volta della Svezia da cui sarebbe poi entrato a Pietrogrado. Ecco. Chiudete gli occhi, e provate a pensarci un momento. Lenin aveva un obiettivo, aveva la coscienza di dover fare qualcosa che sarebbe passato alla storia. Sapeva di dover attuare un disegno. E’ sempre la necessità di riprendersi qualcosa, e la consapevolezza di essere nel giusto, a elevare l’uomo a Parca. E siccome non può dispiegarsi la storia senza che ci sia una narrazione adeguata, ecco il vagone. Un vagone piombato da cui, nessuno, poteva salire o scendere, attaccato al treno che fende in due il vecchio continente. Immagine che è letteratura. Che evoca l’immagine del conte Vlad, raccontato da Stoker quando, sepolto nella sua cassa, cerca di tornare tra le mura del suo Castello nei Carpazi. Anche il conte Vlad, in fondo, non vuole far altro che riprendersi quello che la storia gli ha sottratto e cioè l’amore.
C’è qualcosa nell’aria, certo, ma la polvere del novecento, che non si è ancora posata, continuerà a non posarsi sull’Italia. Perché, qui da noi, non c’è nessuno che ha le carte in regola per incontrare la storia. L’Italia, se la cresta dell’onda della storia passerà dalle nostre parti, farà solo un po’ di bollicine nella schiuma. Siccome la narrazione ha una sua importanza, che narrazione possiamo attenderci dai personaggi de. Grillo viaggia in SUV. Renzi da Firenze a Roma, male che va, ci va a bordo di Italo. Niente vagoni piombati, dunque.
E in biblioteca, per carità, non ci va più nessuno. Ancora ho i brividi di freddo a pensare a quando Marchionne, intervistato da Fabio Fazio a Chetempochefa, mentre spiegava un suo ragionamento citava una delle riviste, tipo Atmosphere, che si trovano a bordo degli aerei nella sacca del sedile davanti.
Per fare la storia occorrono le buone letture, perché la polvere ha bisogno di una copertina per potersi posare.

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