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L’attitudine a Palazzo Chigi: il caso Renzi

 

Di conversione ne ho fatta una, bella grossa, dall’ateismo alla fede cattolica, ventidue anni fa, e non mi concedo più così facilmente a questo tipo di esperienze, proprio perché illuminanti e dunque non all’ordine del giorno.

Non sono mai stato renziano; sono per giunta un toscano della Maremma Toscana, di Grosseto, dunque considerato dai fiorentini poco di più di un extra-comunitario, del resto noi non colmiamo questi ultimi di amorevoli attenzioni, ligi alla tradizione di lotte fratricide nello spaccato di terra e destino che ci dette i natali, a noi maledetti toscani.

Sono sempre più ancorato ai valori della Tradizione civile e religiosa, dunque non vicino alle convinzioni dell’attuale Presidente del Consiglio, che definirei – avendolo invitato in qualità di moderatore di un evento, e dunque ascoltato, alcuni anni fa, su esplicita richiesta di Socci, che presentava uno dei suoi libri su Gesù nella chiesa sconsacrata di Santa Marta, vicino al Ministero per i Beni e le Attività Culturali – un cattolico progressista, una volta si sarebbe definito “modernista”, dunque, neanche su questo c’è accordo.

Non mi occupo attivamente di politica e non nutro ambizioni di candidature in particolari liste che, in ogni caso, sarebbero altre da quelle renziane.

Di conseguenza, vivo uno di quei rari lussi in cui, da cittadino, uno si può esprimere e dire la sua, magari facendola fuori dal vasino, ma sapendo che il vasino se lo ripulisce da solo e non sporca la casa di un altro. E questa libertà me la prendo tutta.

Il caso Renzi – un uomo di 38 anni che, da sindaco di una città ormai declassata a seconda fila di un’Italia non più in prima fila, purtroppo, diventa nel giro di meno di due anni Presidente del Consiglio – ha più a che fare con l’attitudine e l’atteggiamento umano che con la strategia e la tattica politiche come tali. Mi spiego con degli esempi.

In Italia, il modello del sindaco vincente che, come amministratore di rango, fa pesare la sua stazza e alla fine, formando un soggetto politico, vince la leadership del Paese, non nasce col giovane Matteo, ha una storia lunga e non trascurabile. Erano gli anni ’90, i famosi “anni ruggenti” secondo qualche economista che, dopo il clintonismo, scoprì che i derivati stavano a sinistra, in America, e sarebbero stati da quella parte anche in Europa (rileggere gli ultimi contributi di Brandt, please), e in Italia era tutto un costruire “laboratori” politici. Berlusconi aveva sonoramente sconfitto la “gioiosa macchina da guerra” di occhettiana memoria e i territori sembravano reclamare la loro dignità, dunque, con essi, i sindaci e gli amministratori locali. Cacciari scriveva dottamente su “Micromega”, la rivista della sinistra illuminata, sulla buona “Metropolis” e sul modello-città come esemplare di buon governo da esportare e rendere risorsa nazionale. La legge sull’elezione dei sindaci aveva fatto saltare tanti meccanismi corporativi e tutto marciava per un ritorno al territorio, sullo stile dell’economista di sinistra eretico, vilipeso ai congressi del PCI, Giacomo Becattini: l’intendenza seguirà, si diceva allora. C’erano tutti i prodromi per la disastrosa riforma del Titolo V della Costituzione e via discorrendo. Questa la cornice. Roba vecchia.

Solo che – piccolo particolare – mentre Cacciari di questo tema ne faceva spremuta strategico-culturale per i convegni, concionando sul “partito dei sindaci” e cominciando a rosicare per la sostanziale ininfluenza e incidenza oggettiva di questa linea; Renzi, più scafato e mestierante di politique d’abord, meno intellettuale e adùso però alla pugna elettorale, è riuscito a fare di questo vantaggio competitivo di amministratore locale di rango una leva per introdursi nel Palazzo e nella stanza dei bottoni. Detto nel linguaggio della Programmazione Neurolinguistica, di Renzi si dovrebbe fare il “modeling”, si dovrebbe cioè cogliere l’insieme delle strategie procedurali, linguistiche, comunicative e l’atteggiamento di fondo, tutte carte che hanno permesso prima di sedersi al tavolo nazionale del Pd, di prenderselo, di sloggiare Letta, di allearsi – dicendo di averlo come avversario – Berlusconi, ricevuto con tutti gli onori a casa sua, e infine – raccolta dopo la geniale semina – di insediarsi a Palazzo Chigi, con una squadra appunto di amministratori locali, gente di cooperative, economisti, politici attrezzati e di lungo corso, insomma un pezzo di establishment tutt’altro che trascurabile e in ogni caso certo non meno fungibile di tanti altri prodotti fin qui presentati.

Cosa ha fatto la differenza fra un Cacciari, colto e ruvido, perennemente cogitabondo e sderenato di conseguenza, e un Renzi, furetto, impavido, irriverente fino alla caricatura comica strapaesana, secondo i profili più intellettuali?

Elementare, Watson: l’atteggiamento. A Renzi non gliene frega un emerito piffero di quel che dicono gli altri, fa politica da quando si soffiava il moccio dal naso, ha imparato a prenderle ed a darle, ha probabilmente avuto una famiglia che gli ha trasmesso quella giusta sicurezza nei propri mezzi che chiunque rivesta un ruolo pubblico deve avere in quantità non modica, ha vinto quello che c’era da vincere, ha studiato ma non se n’è fatto un cruccio, quando non sapeva ha chiesto a chi poteva aiutarlo, insomma ha scelto una strada e l’ha perseguita fino in fondo. Risultato: vittoria.

Cacciari, se lo incontri e non lo saluti per primo, ti lancia una fatwa almeno mentale, quando discuti con lui – se ce la fai – dovunque, in tv, alla radio, sui giornali, ti racconta che lui sì che ha studiato, conosce Hegel, Marx, Schmitt, Hobbes, Tommaso Campanella e forse anche il pensiero recondito di mia zia Berenice che, pace all’anima sua, se ne sta lassù fra gli angioletti e cantare non so bene quale peana al buon Dio; non ti azzardare poi a parlare di Berlusconi se non che nella forma in cui lui stesso ne ha parlato nel suo ultimo articolo-saggio sull’ “ESpresso”, e basta, perchè il Professore ovviamente non scrive sui fetidi giornali…chiaro il concetto? Questo atteggiamento conduce ad un solo risultato: la sconfitta. Si chiama autosabotaggio.

Ecco, Renzi tifa sempre per la sua squadra e si allea con il suo io inconscio, che lo premia con un certo numero di buone intuizioni, in ultima istanza vincenti; Cacciari – e con lui D’Alema, Civati sindacalisti Fiom, quel tizio di cui non ricordo il nome che era in lizza per le primarie, così ben educato e naturalmente coltissimo etc – sono non solo sabotatori di questo Paese, che ha bisogno di ottimisti razionali al governo invece, ma anche autosabotatori, con tutta la filiera di tormenti, pene e alti lai al cielo per il destino cinico e baro che si accanisce contro di loro. Il destino è l’ultimo miglio dopo una serie di scelte, che possono essere disastrose o vincenti.

A Renzi quel che lorsignori dicono gli “rimbalza”, come dicono a Roma, e sono loro a rimbalzare mentre questo chiacchierone che scherza su di sé e perfino sulle poche commendevoli uscite forse calunniose sulla sua vita privata e non querela nessuno, perché – da ottimista razionale – sa che la vita è in fin dei conti troppo bella per sprecarla nelle aule di tribunale e che, alla fine, lui ve la farà vedere. E, infatti, ve la sta facendo vedere.

Tutto questo – diranno Cacciari e lorsignori intellettualoni aggiunti – non è politica, ci mancherebbe altro, sono sproloqui di coaching de noantri, un tanto al chilo, che niente ha a che vedere con la storia, la cultura bla bla; certo, come no, verissimo, tant’è vero che Berlusconi vi sta facendo vedere i sorci verdi proprio per questo insieme di caratteristiche che vi spaccano e Renzi – da lui scelto come suo successore non per il centrodestra, di cui non frega niente a nessuno, ma per l’Italia – sta continuando, anche per lui, questo, nel senso più nobile e perfino bello, “lavoro sporco”.

Tanto, alla fine, nella vita, si esce fuori dall’angolo non perché, avendo studiato vent’anni di strategia politica, si sa “come”, ma perché si è in grado di dire, credendoci: “Non so come, ma ne usciremo”. Lo diceva anche un altro grande ottimista razionale, Bettino Craxi, genio politico italico infatti se mai ve ne furono, e un altro romano di doppia formazione borgata-periferia cantava: “Lui è l’ottimista, dall’aria vagamente socialista”. Sì, era Venditti, che qualcuno ha visto barattare annate del vecchio giornale di Gramsci per gli ultimi discorsi del Cinghialone, morto troppo presto e destinato a trovare qualche tratto genetico comune, sì, ma altrove.

 

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