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Le automutilazioni del M5S

Il punto in eccesso emerso dal voto di fine febbraio 2014, e che fece saltare tutti i calcoli e le previsioni del vincitore-perdente, cioè il Pd di Bersani, fu l’esplosione del grillismo, risultato primo movimento nazionale dichiaratamente antipartitico. I due mesi che l’allora padrone del Pd spese per tentare – anche in uno streaming pubblico che pose in rilievo la pochezza concettuale dei due partiti usciti primo e secondo nella graduatoria del voto – un accordo col M5S, evidenziarono non soltanto l’intransigenza di una neoformazione che si riteneva dura e pura e inconciliabile con qualsiasi altra, antica o recente, ma anche una presunta superiorità metodologica degli ultimi arrivati con la loro convinzione che solo la cosiddetta democrazia 2.0 costituisca il sigillo di una nuova più avanzata e più credibile democrazia. Dunque, la vera novità della consultazione per la XVII legislatura fu la neoformazione grillina. Non soltanto per essere stata la più votata. Ma perché si proponeva come una forza popolare anticasta in grado di smantellare il vecchio e inquinato Stato e trasformarlo in un modello di virtù, generosità, uguaglianza, decisionismo.

Per più d’un verso Grillo anticipò, nel sistema postelettorale, la rottamazione di Renzi, già nota ma non valutata come una forza trainante il ribaltamento del bipolarismo anomalo; che, invece, il M5S mostrava di avere già realizzato, sebbene con troppi insulti ai moribondi dei tradizionali Palazzi del potere e con una unità d’intenti sconosciuta al resto dell’arena politica italiana.

Esattamente ad un anno di distanza da quel voto, il partito risultato primo, autoisolatosi da qualsiasi tradizionale trattativa e che ambiva ad indicare baldanzosamente il successore di Napolitano attraverso una ridicola consultazione per via elettronica – sperimentazione della democrazia 2.0 -, rivela ora tutte le sue debolezze intrinseche. Le consultazioni interne, alquanto misteriose e comunque poco trasparenti, restano, ma la democrazia è sparita. Sacrificata sull’altare del cesarismo del capo (o di una diarchia dove non si capisce chi sia la mente e chi il braccio). Con la conseguenza che i parlamentari grillini, ove osino esprimere un’opinione diversa da quella del vertice decidente, vengono sottoposti ad un giudizio sommario, espulsi dal movimento, additati come traditori dei brillantissimi progetti innovativi del duo Grillo-Casaleggio, dando luogo ad un inizio di decomposizione tutt’altro che marginale.

In fondo, anche gli odierni espulsi (i quali, si dice, avranno presto dei consapevoli imitatori) hanno fatto la loro gavetta. Si sono adattati a delle sedute spiritiche – pardon, psicopolitiche d’indottrinamento settario – in maniera disciplinata. Hanno rinunciato al titolo di «onorevole» per scendere a quello di «cittadino», come ai vecchi tempi dell’ugualitarismo giacobino. Anch’essi issavano nelle aule parlamentari gli stessi cartelli iconoclasti ideati dai loro esegeti. La loro limitatissima libertà cessava là dove iniziava il prestigio del capo: che non si può mai discutere, pena il crollo dell’intera piramide.

Questi sono i frutti della democrazia 2.0, una illusione, un ingannevole strumento che già George Orwell aveva lucidamente intuito costituisse la base di una dittatura che ottundeva le coscienze individuali ed imbarbariva i comportamenti collettivi. Se c’era un sistema che andava (e va) controcorrente in una società iperindividualista, è proprio quello inventato da Grillo-Casaleggio: che pretendono di tirare i fili dei loro parlamentari come fossero dei burattini senz’anima e senza voce, giacché anche questa spetta esclusivamente ai capricciosi, mutevoli giudizi di una diarchia solitaria, indiscutibile, pretenziosa, fanatica.



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