La finanza islamica è un sistema, non una religione, che può essere usato da chiunque, musulmano e non, sia interessato a trarne benefici. Zubair Mughal, amministratore delegato del Al Huda Centre of Islamic Banking and Economics (CIBE) spiegava così il futuro del settore, in un intervento sul quotidiano pakistano The Nation.
Le previsioni per il 2014 indicano una rapida crescita e la possibilità che il volume superi i 2mila miliardi di dollari. Un settore che attira potenze emergenti, o già emerse, come India e Cina, e in cui oltre 200 milioni di musulmani possono trovare un sistema finanziario in linea con le proprie convinzioni religiose.
Nel 2014, continua Zubair Mughal, Dubai e Londra saranno in concorrenza per diventare gli hub globali del settore. Il terzo incomodo potrebbe essere Kuala Lumpur. E nella partita potrebbe entrare anche Hong Kong. Già sette anni fa, scrive Davide Barzilai, dello studio legale Norton Rose Fulbright, sul South China Morning Post, l’ex colonia britannica aveva accarezzato l’ipotesi di trasformarsi in uno dei centri mondiali della finanza islamica. Obiettivo che potrebbe essere raggiunto questo anno con l’emissione dei primi bond islamici
Guardando alla Cina continentale, lo scorso dicembre l’agenzia cinese di rating Dagong ha firmato un memorandum of understanding con la Islamic International Rating Agency. Alla gestione delle valutazione sulle istituzioni finanziare islamiche si lega la ricerca di investimenti cinesi nei Paesi islamici.
“L’approccio cinese per approfondire i rapporti economici con il mondo islamico sosterrà le già forti relazioni con i Paesi arabi”, scrive Fabio Vanorio, consigliere ministeriale alla Farnesina, in un’analisi per Zawya, “La Cina ha diversi interessi nel mondo islamico, dagli investimenti nell’energia (in Arabia Saudita, Iran, Kuwait, Oman, Qatar), alle infrastrutture per i trasporti (progetti ferroviari che collegano la Cina all’Iran passando per Kazakistan, Uzbekistan e Trukmenistan) fino agli intensi legami economici con l’Indonesia e la Malaysia nel Sudest asiatico”.
L’intesa tra Dagong e IIRA si inserisce quindi nella strategia cinese per l’influenza in Medio Oriente. Inoltre, sottolinea Vanorio, Pechino fa sua una politica di lungo respiro verso il mercato dei sukuk, ossia dei certificati d’investimento conformi alla legge islamica, migliorando la propria conoscenza dei prodotti a reddito fisso che si adeguano alla sharia e preparando la strada per le emissioni di bond in renminbi delle società islamiche, allargando il numero delle valute in cui sono denominati i sukuk ad alto rendimento.
Nello sviluppo del mercato globale del sukuk si fa sentire inoltre l’interesse della UCRG. La sigla sta per Universal Credit Rating Group, unione della cinese Dagong con la russa RusRating e con la statunitense Egan-Jones. Sullo sfondo di questo progetto c’è al riforma del sistema di rating. Vanorio cita gli economisti Andreas Fuchs e Kai Gehring.
Secondo i due studiosi, in teoria la concorrenza e il timore per la propria reputazione dovrebbe spingere le agenzie a valutazioni accurate. Tuttavia c’è il rischio che le analisi siano inficiate dal ruolo dei rispettivi Paesi, favorendo i propri governi e gli alleati.
Pechino al contrario cerca di inserire il dibattito in quello più ampio sulla gestione multipolare del mondo, in opposizione al ruolo statunitense. Il tema del rating e dall’analisi dei rischi è sollevato dal China Daily. Per il giornale in lingua cinese, il settore del rating è stato dominato dalle tre sorelle Moody’s, Standard & Poor, Fitch. “La loro credibilità è stata erosa dal fallimento nel prevedere la crisi finanziaria del 2008”, scrive Zheng Yangpeng, “tuttavia nessuna nuova agenzia può al momento prendere il loro posto”. Questo, spiega esplicitamente, è lo scopo del consorzio UCRG. Almeno nella dichiarazione di intenti dare un’altra scelta.