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Lo scivolone di Renzi sul meridionalismo

Il governo a trazione nordista (non ci sono ministri dell’Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania e Sardegna, oltre che del Piemonte) ha sollevato le legittime recriminazioni del sindaco di Bari, Michele Emiliano. Non perché non è stato riservato a lui un dicastero cui teneva moltissimo. Ma per il dato più rilevante che l’ispirazione complessiva del nuovo esecutivo sembra ignorare totalmente le ragioni delle popolazioni meridionali che, dal momento costitutivo del Regno d’Italia, continuano ad essere considerate estranee all’unità nazionale.

Si dice che è vizio antico dei meridionali lamentarsi, piangersi addosso epperò campare di assistenzialismo e di provvedimenti speciali che finiscono sistematicamente in mano ad organizzazioni delinquenziali. C’è del vero in tale giudizio. Ma non è la verità. Più esattamente, non è tutta la verità, ma solo quella, strumentale, di un antico pregiudizio savoiardo (ed anche toscano, invero) che vuole i meridionali stirpe semibarbara e gli allobrogi popolazioni civili e generose.

Renzi è scivolato su questo versante non proprio simpatico. Nelle sue stesse fiorite citazioni di cui ultimamente ha abbondato ad ogni pie’ sospinto, ha totalmente ignorato nomi e pensieri di Giustino Fortunato, Guido Dorso, Luigi Sturzo e, ove questi gli apparissero troppo lontani, quelli di Benedetto Croce, Aldo Moro, Danilo Dolci, Leonardo Sciascia, più vicini a noi, che del meridionalismo non hanno fatto una bandiera per costituirsi in governo del paese, ma solo una corrente di pensiero che neppure Mussolini, con la sua arroganza e prepotenza, riuscì a soffocare.

Personalmente non mi meraviglio di una tale, inaccettabile e rozza omissione. Perché Renzi, tutto può pretendere di essere (o di apparire nella realtà) che un autonomista. La stessa idea di sindaco d’Italia che ha ammaliato, in precedenza e ora, uomini come Mario Segni, Enzo Bianco, Massimo Cacciari, cela e implica un disegno centralista. Dove i singoli comuni amministrati (si chiamino Sassari, Catania, Firenze o Venezia) vengono riguardati come modelli di buongoverno, se guidati con autorità, cipiglio decisionistico e quindi trasferibili a livello centrale. Ma i comuni sono cosa diversa dallo Stato. E l’amministrazione dello Stato non si identifica con quella di un ente locale.

Nel suo governo, Renzi ha inserito un buon numero di sindaci in attività di servizio o appena uscitine fuori. Un presidente del consiglio ha responsabilità diverse dal sindaco, sia pure di una città splendida come Firenze. Il governo centrale non si gestisce come fosse una giunta municipale. Il parlamento dal quale si deve essere controllati e sostenuti, non è un consiglio comunale; dove possono manifestarsi meschinerie ancora più gravi di quelle abitualmente riscontrabili nelle camere, e tuttavia si affrontano temi che colpiscono il singolo cittadino, che sa apprezzare e dissentire in assemblea anche se non è un consigliere comunale.

Insomma il sindaco d’Italia è una trovata pubblicitaria collegata col sistema d’elezione che, essendo più chiaro e più rapido di qualsiasi altra legge elettorale vigente nella repubblica, può dare l’impressione di essere migliore, più semplice e adattabile anche al centro. Solo che il sindaco d’Italia è una contraddizione in termini; costituisce l’esatto contrario dell’autonomismo – in Italia strutturale da secoli –; ed è oggettivamente d’ostacolo ad una visione politica d’assieme, tipica dello Stato, non del comune.

Il dubbio vero è che, a Renzi come a molti dei suoi ministri, difetti proprio la visione d’assieme: sul piano dell’economia come dell’intera materia ordinamentale. Il che lascia aperti molti, moltissimi dubbi sulle capacità del governo Leopolda di realizzare ciò che ha promesso troppo illusionisticamente.



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