Esportare il made in Italy nel Sudest asiatico non come prodotto, ma come brand e modello di management. In una conversazione con Formiche.net, Massimiliano Cordeschi, presidente della società di consulenza Cordeschi Ginanneschi Associati, intervistato a margine del workshop Business over South East Asia organizzato dalla Luiss Business School, spiega perché il Sudest asiatico può costituire un mercato fondamentale per l’export delle imprese italiane.
Perché scegliere il Sudest asiatico e non, come sembrava essere la tendenza fino a poco fa, la Cina? Come si muovono le Pmi italiane?
Oggi non c’è approssimazione nel muoversi. Non si parte senza uno studio approfondito, rispetto al tipo di mercato, al tipo di prodotto. Inoltre non ci sono più le logiche che erano seguite fino all’avvento delle nuove tecnologie. Fino a qualche anno fa c’era l’imprenditore che si spostava per la vacanza e si affidava molto all’intuito o alla conoscenza di qualcuno che riusciva a portarlo in un mercato. Oggi c’è una logica più scientifica, anche con una documentazione fai da te, in Rete, prima di fare un qualsiasi passo. In questo contesto, l’export è l’unico valore in crescita in questi anni di crisi.
Cosa rende così speciale l’area?
Chi è andato all’estero è riuscito a mantenere se non ad aumentare il fatturato. Le leve che muovono questi spostamenti sono sempre le stesse e sono di natura finanziaria. Il secondo passo è rivolgersi ai mercati in crescita sia in termini di spesa sia finanziari. E i mercati del Sudest asiatico sono tutti in crescita. Se si prende il prodotto interno lordo del 2013 e le proiezioni per il 2014 sono tutti tra il 2 e il 6 per cento in più rispetto all’anno precedente.
Quali sono le maggiori opportunità nel Sudest asiatico?
I Paesi dell’Asean non sono più visti come ambienti da colonizzare, ma come mercati. Molte aziende che vanno oggi nel Sudest asiatico lo fanno per avere lì il proprio mercato di riferimento. L’Asean ha 600 milioni di cittadini, che mese dopo mese hanno una capacità reddituale più alta, quindi hanno capacità di spesa. Rappresentano un mercato eccezionale, con una grossa facilità di norme e di inserimento nel mercato stesso. Tra gli Stati esiste una sorta di barriera antidoganale. Hanno quasi la libera circolazione delle merci a dazi che vanno dallo 0 al 5 per cento al loro interno.
Producendo in Indonesia o Malaysia si ha automaticamente un mercato aperto in tutti gli altri Paesi.
Nessun punto a sfavore delle imprese che investono in quella parte di mondo?
Avranno però difficoltà sulla libera circolazione dei lavoratori, perché sono realtà molto diverse. L’Indonesia ha 250 milioni di abitanti, ma ne fanno parte anche Paesi come il Brunei e Singapore con popolazioni molto ridotte. Non ci potrà quindi mai essere la libera circolazione dei dipendenti. Però l’importante è che ci sia una libera circolazione dei mercati.
Le aziende interessate come possono entrare in questi mercati?
Penso che a muovere il tutto non sia più il mercato riferito al prodotto, ma il mercato riferito al management. C’è un evoluzione, velocissima, che va nella direzione dell’esportazione del made in Italy non inteso come prodotto singolo, ma come brand. È questo ciò che veramente apprezzato.
Ecco perché aziende che fanno prodotti che qui non sono famosi riescono a trovare nicchie di mercato in questo tipo di Paesi. Questo perché si tramandano un’attività che sono le cosiddette aziende familiari e se la tramandano da diverse generazioni, riuscendo a trovare spazi. Ed è questo modo di gestire che si può esportare in un tessuto economico in cui le pmi italiane possono avere buone opportunità perché riflette la nostra situazione.
Oltre alle normative del luogo, ci sono altre condizioni da tenere a mente quando ci si vuole aprire a Paesi così distanti?
Uno dei temi che non sono riuscito a trattare durante il convegno è stato il ruolo della religione. Parlo in particolare delle religioni fataliste, come può essere l’induismo. Un incidente come l’uccisione di una mucca può essere inteso dall’imprenditore locale come un segno di sfortuna e spingerlo a non firmare contratti. Situazioni che i nostri imprenditori non capiscono.