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Che cosa dimentica Renzi su privatizzazioni e attrazione degli investimenti

A quel pezzo delle istituzioni saldamente ancorato a riti e protocolli, il discorso con cui Matteo Renzi ha chiesto la fiducia al Senato deve essere sembrato fumo negli occhi. Troppo informale, diretto, quasi sfrontato.

Difficile tuttavia, giurano i suoi fedelissimi, che il neo presidente del Consiglio ceda alle lusinghe del Potere e per questo abbandoni il suo stile fresco e veloce, che tanta fortuna gli ha portato finora.
Non solo un modo di essere, quello del leader democratico, ma forse una caratteristica insita nei suoi quasi 40 anni, non sufficienti, come egli stesso ha tenuto a sottolineare, nemmeno per essere eletti a Palazzo Madama.

E tra le novità che una mente giovane, cosmopolita e dinamica può partorire c’è senz’altro l’accostamento tra la sete di nuovi investimenti di cui soffre ormai cronicamente l’Italia e l’esplosione negli Stati Uniti e in Israele di startup ad altissimo contenuto innovativo, moltiplicatesi grazie ad un mix di burocrazia ridotta all’osso, incentivi mirati e attrazione di talenti da tutto il globo.

Interessante anche il richiamo ad una privatizzazione considerata quasi unanimemente di grande successo, quella del Nuovo Pignone di Firenze, che nel 1993, nello scetticismo generale, passò dalle mani della controllante Eni a quelle di General Electric, che ne moltiplicò di svariate volte il fatturato e per 7 i posti di lavoro, con risvolti positivi per la comunità locale ma anche per il colosso americano che oggi detiene così una quota rilevante del mercato mondiale di riferimento.

Due esempi, questi, con cui Renzi ha voluto rimarcare da un lato la propria volontà di tagliare alcuni dei lacci che frenano l’imprenditoria del Paese e dall’altro di non condividere i timori di chi, mal celando un campanilismo anacronistico, impedisce che molti investimenti approdino sulle nostre sponde.

Per il premier, “l’interesse nazionale è il posto di lavoro che si crea, è una famiglia che riesce a uscire dalla situazione di disoccupazione. L’interesse nazionale che ha questo Paese – ha detto nel suo discorso – è quello di migliorare la sua attuale posizione nella classifica internazionale: siamo al penultimo posto nella classifica OCSE – correggetemi se sbaglio – per la capacità di attrazione, mentre siamo al 126° posto nel Doing business index della World Bank”.

Fin qui le cose dette, molte delle quali condivisibili. Ma altrettanto importanti sono stati però i nodi taciuti.

Il discorso del premier ha eluso due degli aspetti fondamentali che riguardano le privatizzazioni e l’attrazione di investimenti prossimi venturi: l’interesse e la sicurezza nazionale. In tutto il mondo la tendenza è quella di separare rigidamente la competitività nell’attrarre capitali – fondamentale in un mondo con sempre meno confini – dal controllo statale delle aziende strategiche. È da valutazioni come questa che prendono forma provvedimenti come la Golden power, non un’idea di bizzarri teorici del marxismo, ma del liberista mondo anglosassone.

Ad esempio la privatizzazione parziale di Cdp Reti tocca un nodo cruciale per lo sviluppo delle economie del terzo millennio, quello dell’approvvigionamento energetico. Un tema che non può essere liquidato senza tenere conto dei rischi connessi a una cessione in mani straniere di asset così delicati, soprattutto in una economia globalizzata, dove non esistono alleati ma solo interessi momentaneamente convergenti. Un esempio? Proprio quello di General Electric, che dal primo gennaio 2014 ha spostato il cervello del settore oil & gas dalla sede di Firenze a Londra, “per la sua posizione strategica nel contesto internazionale di un business“.

E se quello economico può sembrare l’aspetto prevalente, altrettanta importanza riveste quello della sicurezza. La nostra intelligence, – unitamente al Copasir e all’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica -, avverte da tempo su quanto sia importante tutelare le proprie reti, soprattutto quelle digitali, sulle quali transitano ormai non solo le vite dei cittadini, ma anche il know how tecnologico delle nostre aziende. La competizione tra Paesi non è un pranzo di gala. E fa sempre un po’ impressione ricordare che ad esempio Parigi ha una vera e propria Scuola di guerra economica. Ogni nazione porta avanti una diversa strategia, che coincide con la sua idea di sistema-Paese.

È stato questo, forse, il grande assente nel discorso del Presidente del Consiglio. Su questo, e su altri aspetti, Matteo Renzi è stato finora silente, denotando buone idee ma poco tempo dedicato ad approfondirle. Tempo che in molti auspicano arrivi presto.

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