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Renzi uccida il socialismo reale di comuni e regioni

Il 24 febbraio, nel discorso programmatico, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha parlato di revisione del Titolo V della Costituzione quale riformato frettolosamente nel 2001 dal governo di centrosinistra nel tentativo, peraltro fallito, di intercettare voti che sarebbero andati alla Lega Nord.

Come consigliere del titolare di quello che si chiamava ministero delle Attività Produttive, ebbi modo di constatare come il dicastero con sede a Via Molise, di cui sarà inquilina il ministro Federica Guidi, era stato letteralmente “spolpato”. Nel contempo, le autonomie locali erano state aggravate di compiti non in grado di svolgere. Circa dieci anni fa, feci parte di una commissione, presieduta dal Prof. Cassese, con il compito di riformare il dicastero; presentammo una proposta che tuttavia ebbe poco seguito non per le consuete ostilità burocratiche (avrebbe ovviamente scalfito posizioni di potere interne) ma perché, per mordere (ossia essere efficace) avrebbe dovuto, con una legge costituzionale, riordinare quanto scassato con il nuovo Titolo V. Non se ne fece nulla. Il dicastero cambio nome ma resto più o meno dissestato quanto prima. Non basta neanche come propone IlSole-24Ore del 23 febbraio “cancellare le competenze concorrenti” e riportare al centro responsabilità in materie “come energia, infrastrutture e trasporti”.

Occorre dare al governo della Nazione gli strumenti per agire nella selva oscura del “capitalismo regionale e comunale”, nell’ipotese che quello provinciale chiuda con le Province a cui è collegato. Nessuno sa quante sono le società, le aziende e gli enti partecipati da Regioni ed autonomie locali. Secondo le stime più accreditate quelle “primarie” sarebbero almeno 6000. Ci sono poi le società di secondo grado, “figlie” delle prime, in merito al cui numero gli istituti di analisi e ricerca hanno rinunciato ad azzardare stime.

Si pensa male, ma probabilmente ci si azzecca, se si ritiene che la ragion d’essere di numerose di queste società figlie sia quella di aggirare (entro certi limiti) la normativa su appalti e commesse. Alcuni “scandali” e vicende giudiziarie recenti suggeriscono che questa interpretazione non è tanto lontana dalla realtà. Occorre aggiungere che in molti casi, i sindacati non sono usciti particolarmente bene da queste storie; anche su insistenza sindacale, i documenti del CNEL in questa materia auspicano non la privatizzazione (linea tenuta dall’OCSE) ma la liberalizzazione del “capitalismo regionale e comunale”.

La situazione non sarebbe preoccupante se come auspicato da Giovanni Montemartini in età giolittiana le “municipalizzate” o simile portassero un flusso di cassa positivo netto con il quale Regioni e Comuni potessero dedicare risorse ai più deboli e poveri. Sembrano, invece, essere una fucina di debiti. Secondo l’ultimo censimento del Dipartimento della Funzione pubblica i risultati economici sono crollati del 77% nel solo 2011, ultimo anno monitorato quando solo il 56% delle società locali ha chiuso in utile, e meno del 7% degli utili è stato generato da aziende interamente pubbliche. Secondo la Corte dei Conti ed il servizio studi della Camera dei Deputati, l’indebitamento netto di questo “capitalismo delle autonomie locali” si porrebbe sui 35-40 miliardi, un fardello non indifferente.

I vari tentativi di porre rimedio hanno fatto un buco nell’acqua. Lo scorso autunno i Comuni fino a 30mila abitanti, cioè 96 municipi su 100, avrebbero dovuto privatizzare le proprie società, ma questa ondata di cessioni non c’è stata. Troppe resistenze, troppe regole contraddittorie, il solito valzer delle interpretazioni ha bloccato tutto per l’ennesima volta. Tra le tante, la storia di questa mancata riforma è esemplare della parabola vissuta da tante leggi di casa nostra.

La regola che vieta questa forma di “socialismo reale” a livello locale  dei Comuni medio-piccoli è in «Gazzetta Ufficiale» dal 2010, quando la manovra estiva firmata da Giulio Tremonti diede un ordine draconiano: fino a 30mila abitanti non si possono costituire società partecipate, e i Comuni che le hanno le devono cedere entro il 31 dicembre. Come sempre, a una legge così diretta è seguita la pioggia di correttivi, che hanno preso il testo originario e l’hanno diluito, prorogato, e soprattutto snaturato. La legge oggi in vigore salva prima di tutto le società con i conti in ordine, per cui impone di vendere solo quelle che zoppicano, e magari hanno subito negli ultimi anni perdite tali da portare il capitale sotto i minimi di legge. Ovviamente, se messe in vendita, quelle nei guai nessuno le compra. Se ne dovrebbe imporre la liquidazione.

Vicende analoghe hanno avuto i tentativi di porre ordine nelle società “strumentali”, cioè quelle che lavorano quasi esclusivamente per l’ente pubblico che le ha create. A prenderle di mira è stata la spending review: le strumentali non servono a nulla e vanno vendute, perché è meglio acquistare i servizi dal mercato. In questo caso i termini erano doppi: la privatizzazione doveva avvenire entro il 30 giugno scorso, mentre a dicembre dovrebbero chiudere i battenti quelle che non sono state privatizzate. Poi è arrivata la solita proroga, al 31 dicembre, ma la Corte costituzionale, chiamata in causa da Friuli Venezia Giulia, Campania, Puglia e Sardegna, a luglio ha stabilito che, in base all’attuale Titolo V, la regola è incostituzionale per le tutte le Regioni e per i Comuni nei territori a Statuto speciale. A fare crescere il numero ed il peso delle società “strumentali”, è stato anche un insieme di regole che hanno spinto le esternalizzazioni anche in base al malinteso che «azienda» e «società», anche se emanazione diretta degli enti pubblici, fossero sinonimo di modernità ed efficienza. Almeno fino al 2006, il Patto di stabilità interno sembrava costruito apposta per ingigantire il fenomeno, che permetteva di far uscire dal bilancio dell’ente spese e assunzioni in slalom rispetto ai vincoli di finanza pubblica.

Matteo Renzi è stato presidente di provincia e sindaco. Ha quindi esperienza di questo comparto. Se non la coniuga con l’ambizione di modernizzare l’Italia, diventerà poco più che un numero: una vittima in più del “socialismo reale” a livello locale.



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