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Risposta al Prof. Antonio Di Grado

Il Prof. scrive sulla sua pagina di Facebook: “Incontro un’ex allieva, che mi dice delle migliori colleghe del suo corso. Tutte brillantemente laureate, ma chi fa la cassiera in un bar, chi la segretaria in un laboratorio d’analisi.
Che tristezza. Quante speranze e legittime attese, quante competenze e passioni, mortificate e svendute da un paese senza futuro e senz’anima! E che senso ha avuto e ha aver parlato e parlare di Dante o di Spinoza, di Mazzini o di Sofocle a quei volti attenti e fiduciosi? E come ci si può ancora illudere di trasmettere cultura e valori, e di farli germogliare sull’arido terreno dei mercati e delle borse, della speculazione e della sopraffazione? Un argine, dicevamo un tempo; una trincea. E invece era solo un patetico miraggio. O un ignobile bluff”.

Serve. E serve ancora. Perché se quella che vediamo si svelasse per quella che è, e cioè una guerra mondiale, scopriremmo che solo la cultura potrà salvarci la pelle. E la storia, quella fatta delle piccole storie di ciascuno, ce lo insegna. Alcuni nonni, tra i pochi acculturati di un tempo, scamparono alla follia del tedeschi, evidentemente deve essere solo una curiosa coincidenza, solo perché conoscevano l’inglese e sapevano giocare a scacchi. Un po’ come ne “La vita è bella”, dove grazie a qualche indovinello (sintesi di intelligenza e cultura) si poteva stabilire qualche relazione con l’altrimenti nemico. Anche davanti a un registratore di cassa si può, dunque, far valere gli studi. Fronte alta, profilo greco, proprietà dei termini. E, poi, bafanculo ai Lehman & Brothers e ai Mckinsey boy.

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