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Robin Tax: atto secondo, il giudice a Berlino

Siamo all’apoteosi della negazione del diritto alla giustizia dei cittadini e imprenditori. E a compiere questo atto inspiegabile (parlo di atto, non di violazione di un diritto fondamentale, anche se molti imprenditori potrebbero viverlo come tale) non è un organo dello Stato qualsiasi.

È la Corte Costituzionale che, inspiegabilmente, ha rinviato sine die un giudizio che è dovuto al ricorrente allorché i Supremi Giudici sono chiamati ad esprimersi. L’ultima volta che la Consulta ha rinviato la decisione, e lo ha fatto agli inizi del 2013, senza neppure fissare una data precisa per la futura trattazione, questa riguardava il parere di legittimità sul ricorso promosso dalla Commissione Tributaria provinciale di Reggio Emilia nel lontano 2011 (ordinanza 9/6/2011) in materia di addizionale Ires sulle attività delle imprese, la cosiddetta Robin Tax.

Mi direte che vi sono giudizi ben più importanti posti all’attenzione della Consulta e che il momento storico ci vede impegnati in altre priorità. Io vi risponderò che nessun giudizio è più importante di altri perché tutti sono meritevoli della stessa adeguata e certa attenzione da parte dei Supremi Giudici, tanto più se riguardano il Cittadino e la sua capacità di fare impresa e produrre ricchezza per il Paese.

Ma oggi esiste un “giudice a Berlino”, come diceva il mugnaio di Potsdam che nel ‘700, dopo aver bussato a tutte le sedi di giustizia invano, ebbe ragione ad opera di Federico il Grande. E benché non vi sia più un Federico a cui rivolgersi, i mugnai aumentano e dopo Reggio Emilia arriva Brescia, e forse altre Commissioni Tributarie saranno spinte da solerti imprenditori-mugnai a bussare alle porte della Consulta, che prima o poi dovranno aprirsi.

Infatti, ora, anche la commissione Tributaria Regionale della Lombardia bussa alla porta della Consulta e lo fa con una ordinanza (28/67/2014) che oltre a rincarare la dose sui profili di illegittimità costituzionale per contrasto, tra gli altri, con gli art. 3 (principi di uguaglianza) e art. 53 (capacità contributiva) della Carta fondamentale della Repubblica Italiana, arricchisce di nuovi argomenti – legati soprattutto alle distorsioni del mercato generate dalla Robin Tax – quanto già segnalato dall’ordinanza del 2011.

Dovete sapere che nel tempo la norma sulla Robin Tax è divenuta per i Governi di turno come le accise sui carburanti: la si aumenta, la si dilata, la si impone senza scrupoli per fare cassa e non in ragione del prezzo internazionale del greggio che – di fatto – resta sostanzialmente stabile.

Infatti il passato Governo di Enrico Letta con la sua strana – oggi rediviva – maggioranza, ha variato i parametri di applicazione della norma modificando i limiti sotto ai quali le attività economiche prima erano escluse. Li ha abbassati con il decreto legge c.d. Del Fare nell’agosto del 2013, portando tali soglie (che già erano state riviste al ribasso dai 25 ai 10 milioni di euro) a 3 milioni di euro di fatturato e 300mila euro di reddito. E’ vero dal gennaio 2014 l’addizionale è tornata al 6,5% dal 10,5%, ma il Governo Letta ha aumentato a dismisura il numero dei soggetti imprenditoriali colpiti ed estendendo ulteriormente la misura a tutte le imprese del settore energetico in parte precedentemente escluse, colpendo così anche le piccole e piccolissime imprese che costituiscono l’ossatura portante del sistema Italia. Ma ha mantenuto la settorialità della tassazione in modo irragionevole.

È qui che si inasprisce ancora la dolente nota di evidente contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, perché la norma è applicata solo a talune categorie di attività economiche (nello specifico solo al settore dell’energia) e non a tutte le imprese, generando quindi già monte un vulnus che si sostanzia in una grave sperequazione di pari trattamento tra cittadini (o comunque tra imprese).

Ma la sperequazione generata dalla norma, che è sub iudice dalla Consulta, sembra aggravarsi sul principio della capacità contributiva del cittadino (imprenditore) che viene stravolto sotto un doppio profilo di costituzionalità dal forte sapore di illegittimità. La norma infatti da un lato vale solo per un settore produttivo e non per altri come detto, dall’altro all’interno dello stesso settore si replica la sperequazione di trattamento utilizzando anche il principio di “attività prevalente svolta”. Questo vuol dire che nel medesimo perimetro di applicazione se una impresa tratta solo energia è soggetta alla tassa, se svolge altre attività di natura prevalente ne resta esclusa (è il caso del commercio dei carburanti effettuato tramite gli impianti di distribuzione che se sono di proprietà della grande distribuzione -GDO- restano esclusi dalla tassazione Ires aggiuntiva perché la natura dell’attività prevalente è non già la distribuzione dei carburanti, ma la vendita al dettaglio di altri generi di consumo, come gli alimentari ad esempio). E questi sono solo alcuni profili censurati dalle Commissioni Tributarie. Profili che i Giudici di Reggio Emilia prima e Brescia poi non esitano a definire “penalizzanti per il mercato e la libera concorrenza”. Ma i giudici della Lombardia rincarano la dose la dove si focalizzano sui limiti di applicazione della tassazione e sull’assoggettamento di tutto il reddito imponibile (quindi anche i proventi derivanti da attività espressamente escluse) eccependo sostanzialmente come il sistema, che in tal modo esclude o meno alcune attività rispetto ad altre che sono soggette alla norma, porta a “distorsioni impressionanti neppure previste dal legislatore” (ndr. come dire che il legislatore è stato – per essere buoni – poco attento) e che la norma stessa in sostanza presenta “ulteriori profili di irragionevolezza e di lesione del principio del rispetto della capacità contributiva”.

Va da sé poi che molto di questo pasticcio lo si deve anche e soprattutto alla poca attenzione tecnica di chi ha voluto introdurre la Robin Tax in linea generale, estendendola poi anche al settore del commercio.

Infatti la natura dell’attività di chi commercia prodotti energetici prevede l’acquisto del prodotto al miglior prezzo sul mercato e la rivendita al prezzo più conveniente e tale da assicurare la sostenibilità dell’impresa. Unica nota questa (che non doveva essere ignorata da chi ha inventato la Robin Tax), perché chi effettua il commercio puro dei prodotti energetici non produce. Cioè per essere chiari il rivenditore di carburanti, oggi soggetto alla Robin Tax, non effettua la raffinazione del greggio perché non è una compagnia petrolifera (che fa la ricerca, estrae il prodotto o lo acquista sul mercato internazionale e poi lo raffina) e dunque chi commercia in modo esclusivo non potrà mai trarre alcun vantaggio economico dalla fluttuazione del prezzo internazionale della materia prima su cui, peraltro, non ha minimamente la capacità di incidere. Insomma i commercianti dei prodotti petroliferi dovevano restare fuori dalla tassazione prevista dalla Robin Tax. Tutto questo era presumibilmente ben noto ai tecnici che hanno “inventato la Robin Tax” e che o sapevano e hanno volutamente ignorato questo aspetto che è fondamentale e che peraltro è uno dei motivi di doglianza, o non sapevano e quindi andrebbe rivista la loro posizione lavorativa, destinandoli a mansioni più consone al loro sapere reale.

Alla fine comunque sembra di assistere un po’ a quelle norme bislacche, che hanno visto spesso la luce negli ultimi mesi, che prima di imporre nuovi balzelli (magari con fantasiose clausole di salvaguardia basate ancora, solo e sempre sull’aumento delle accise sulla benzina) precisano che tali norme sono in deroga allo statuto del contribuente. Insomma quello Statuto teso a salvaguardare i diritti dei contribuenti che resta un documento di intenti privo di valore di legge, quindi facilmente superabile dalle sempreverdi esigenze di far cassa per quadrare il bilancio dello Stato, invece di definire e attuare una seria spendig review della spesa pubblica.

Ora che abbiamo spiegato – mi auguro in termini comprensibili – l’abominio normativo della Robin Tax, facciamo un passo indietro prima di domandarci il perché di questi rinvii da parte della Consulta.

Occorre sapere cosa è la Robin Tax e come e perché fu introdotta dall’allora Ministro dell’Economia Giulio Tremonti.

Fu presentata come norma salvifica dal Ministro, che con una certa enfasi la definiva una tassa che toglieva ai ricchi (o presunti tali) per dare ai poveri (chi, povero, ha mai ricevuto i frutti di questa tassa alzi la mano): era la Robin Tax. La realtà è che serviva per fare cassa. Punto.

Introdotta con l’articolo 81, commi da 16 a 18, del decreto-legge 112/2008 (convertito in legge n. 133/2008) serviva – e serve tutt’ora – a tassare gli extra profitti delle Compagnie Petrolifere, derivanti dalla fluttuazione internazionale del prezzo del petrolio greggio (va ricordato che in quell’inizio di estate il prezzo della benzina alla pompa subiva dei rincari improvvisi ma che la situazione era effettivamente legata alle instabilità degli scenari internazionali delle zone di produzione del greggio). Il nuovo balzello, mascherato come addizionale all’Ires sulle attività delle imprese (partita con un 5,5% nel tempo è giunta sino al 10,5%) mediante la maggiorazione dell’aliquota ordinaria, non è “traslabile” al consumatore finale. Rimane cioè una imposta in capo esclusivo all’imprenditore che non può scaricarla sulla quota parte di costo di produzione/commercializzazione del bene venduto. Ma da tassa destinata a colpire i “petrolieri” si è rivelata una tassa che colpisce chiunque intenda investire nell’energia in Italia e sostanzialmente se io fossi un imprenditore del settore non investirei in Italia perché, oltre confine questo anacronistico balzello di Stato non esiste.

Ma perché la Consulta non decide di decidere?

Semplice perché i giudizi culminati con le ordinanze delle Commissioni Tributarie, si originano da una attenta analisi da parte di quegli imprenditori che come il mugnaio di Potsdam, sono ricorsi prima presso l’Agenzia delle Entrate per richiedere la restituzione di una tassa giudicata illegittima poi, visto che l’Agenzia non rispondeva (e poveretti che dovevano rispondere che avevano ragione gli imprenditori?) facendo valere la regola del “silenzio-rifiuto” (istituto questo che in uno Stato moderno che possa chiamarsi tale non deve esistere perché il Cittadino ha diritto ad una risposta motivata anche se negativa) si sono dovuti rivolgere al grado successivo delle Commissioni Tributarie che, ritenute fondate le ragioni del cittadino-imprenditore-mugnaio, sottoponevano la questione alla Consulta.

Ma la Consulta non fissa una data per la decisione di merito perché sa bene, mi assumo la piena responsabilità di quello che scrivo, che la norma sulla Robin Tax è pienamente illegittima e che se dovessero cassarla dichiarandola incostituzionale, creerebbero un buco nel bilancio dello Stato impressionante.

È un grande pasticcio perché la norma frutta alle casse dello stato circa 1,4 miliardi di euro all’anno di cui circa 200 milioni dal settore petrolifero e meno di una ventina dal settore della commercializzazione dei carburanti che, come detto, è stato incluso nella tassa per una non attenta ponderazione delle attività realmente svolte dalle aziende, da parte del legislatore. Denaro questo che nel complesso possiamo ben dire che viene distorto dalle imprese che potrebbero invece investirlo – tanto più in questo periodo di crisi – in ricerca competitiva e sviluppo e salvaguardare i livelli occupazionali.

Quindi a ben vedere se la norma decade tutti coloro che l’hanno pagata avrebbero diritto a richiedere indietro i soldi allo Stato che, dal 2008 ad oggi, ad occhio e croce, dovrebbe restituire la non indifferente somma di circa 10 miliardi di euro ai quali ovviamente si devono aggiungere gli interessi, i danni e le spese legali.

Ma chi potrebbe essere stato a suggerire alla Consulta di non decidere mediante la non indicazione della data nell’ultimo rinvio del 2013? Non ha importanza perché da Potsdam stanno arrivando sempre più mugnai decisi ad ottenere giustizia.

Ora certamente i Supremi Giudici dovranno giungere ad una decisione perché, come ha sottolineato oggi il Presidente di Assopetroli Assoenergia, Franco Ferraro Aggradi “non è più possibile negare il diritto alla giustizia dei cittadini-imprenditori”.

Ora, il nuovo esecutivo guidato da Matteo Renzi dovrà far fronte, per dare concretezza ai proclami con cui il “Sindaco” ha annunciato di voler dare soluzioni ai problemi del Paese, che bene che vada ci costeranno non meno di 100 miliardi di euro, anche alla copertura, se non degli oltre 10 miliardi di euro per la restituzione della tassa agli imprenditori allorché la norma sarà dichiarata incostituzionale, quanto meno al 1,4 miliardi che verranno meno da una auspicabile ed immediata abrogazione della Robin Tax. Ciò per evitare che il danno si aggravi e che gli imrenditori, soprattutto quelli piccoli e piccolissimi oggi colpiti dall’allargamento (ad opera della sinistra) della Robin Tax, si vedano costretti a licenziare delle maestranze per onorare, così come detta la Costituzione, il pagamento delle tasse. Anche se profondamente ingiuste come la Robin Tax.

Infine va fatto notare come il giovane e inesperto neo-Presidente del Consiglio nel suo discorso “improvvisato”, perché fatto a braccio, alle Camere per l’ottenimento della prevista fiducia, abbia sbadatamente omesso ogni riferimento ai temi dell’energia che pure sono uno dei pilastri su cui va calibrata la bilancia dei pagamenti del nostro Paese.

Per fortuna esiste un giudice a Berlino.

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