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Tapering e deflazione, ecco tutte le sfide di Fed e Bce

L’estate scorsa, quando il Presidente della Fed Bernanke annunciò l’avvio del “tapering”, ovvero della graduale riduzione degli stimoli monetari all’economia, i mercati entrarono in una fase di fibrillazioni, accentuatasi da dicembre, quando la nuova strategia della Fed ha avuto inizio.

Per ora la disponibilità di liquidità resta elevata e la riduzione sarà molto graduale. I mercati sono però già entrati in una fase di tensioni.
Inizialmente a risentirne sono stati soprattutto i Paesi emergenti: economie che negli anni scorsi avevano fortemente beneficiato dell’ondata di liquidità presente sui mercati, stanno adesso soffrendo per effetto del rapido ritiro di quella liquidità. Diverse economie hanno cercato quindi di contrastare l’uscita di capitali e il deprezzamento delle rispettive valute ricorrendo anche ad aumenti dei tassi d’interesse.

I mercati delle economie avanzate hanno invece sofferto poco dell’annunciato mutamento di rotta delle politiche monetarie.
Anzi, proprio il rientro di capitali provenienti dai Paesi emergenti ha favorito alcune attività finanziarie, come le azioni, o i titoli di Stato dei Paesi della periferia europea.
Nonostante le tensioni nei Paesi emergenti si siano intensificate, nelle economie avanzate abbiamo osservato solo qualche leggera esitazione delle borse, dopo peraltro un lungo periodo di forte crescita.

I tassi a lunga sono inoltre rimasti su livelli molto bassi nonostante la riduzione degli acquisti da parte della Fed. Anche i titoli di Stato dei Paesi della periferia europea non sembrano risentire delle tensioni nei Paesi emergenti anche se si guarda con attenzione al rischio che l’aggravamento della crisi possa penalizzare tutti gli asset più fragili.
Peraltro, alcuni commentatori suggeriscono che per la borsa Usa vi sia un rischio di correzione legato al fatto che il mercato potrebbe essere adesso sopravvalutato con le quotazioni gonfiatesi per effetto dell’abbondante liquidità degli anni scorsi.

Possiamo al proposito guardare due indicatori: il rapporto fra i prezzi e gli utili, e la cosiddetta Q di Tobin.
La Q di Tobin misura il rapporto fra il valore di mercato delle imprese e il valore del capitale al costo di sostituzione. Un valore sopra 1 può da una parte anticipare un ciclo degli investimenti forte nel prossimi mesi, ma anche indicare che le valutazioni del mercato sono eccessive, ovvero che la borsa è sopravvalutata.
Allo stesso modo, oggi i prezzi scontano gli utili attesi con un moltiplicatore relativamente elevato, cosa che non dovrebbe accadere considerando che dal punto di vista dei profitti, molto più che da quello del Pil dell’intera economica, il ciclo appare oramai entrato in una fase matura.

Un ulteriore elemento di incertezza è poi legato nelle ultime settimane ad alcuni indicatori che puntano ad un andamento meno vivace della congiuntura Usa. Al momento la lettura di tali dati non è ancora univoca, ed è presto per stabilire che la crisi delle economie emergenti sta già avendo ripercussioni sulle economie avanzate. E’ però anche chiaro che la borsa Usa risulterebbe vulnerabile rispetto all’ipotesi di una crescita dell’economia, e quindi dei profitti delle imprese, inferiore alle attese. Gli aspetti ricordati costituiscono un motivo di ulteriore difficoltà per le banche centrali.
Nell’area euro, nonostante la lentezza della ripresa, le borse hanno registrato una fase di rapida crescita durante l’ultimo anno, in particolare nei Paesi della periferia.

Diversamente però dal caso Usa, le attese sui profitti delle società quotate in Europa non mostrano alcun aumento. Di per sé il rapporto fra prezzi e utili attesi nelle borse dell’area euro non è a livelli particolarmente elevati in una prospettiva storica, ma la crescita dei prezzi degli ultimi trimestri appare legata ad aspettative di espansione dei profi tti che negli ultimi anni sono risultate sistematicamente deluse. Inoltre, diverse imprese potrebbero venire penalizzate dalla crisi dei Paesi emergenti. Il rischio è di ulteriori riduzioni dei profitti attesi, e questo potrebbe rendere più fragile lo scenario dei mercati finanziari.

L’annuncio delle politiche di normalizzazione e il loro successivo avvio dal mese di dicembre hanno anticipato il passaggio del testimone al nuovo presidente della Fed, Janet Yellen.
A rafforzare l’ipotesi del tapering sono d’altra parte intervenuti i buoni risultati in termini di crescita che avevano caratterizzato l’economia Usa nella seconda parte del 2013.
A determinare qualche incertezza vi sono però alcuni dati dissonanti rispetto al generale quadro di forza dell’economia, fra cui la correzione al ribasso a gennaio dell’indice Ism, che sintetizza il clima di fi ducia delle imprese manifatturiere, e risultati meno favorevoli
sul versante del mercato del lavoro. Questi ultimi paiono legati anche a fattori climatici sfavorevoli che hanno colpito l’economia Usa negli ultimi due mesi, e per ora non hanno condizionato i mercati. D’altra parte, si inizia a valutare il rischio che gli effetti della crisi dei Paesi emergenti sulle economie avanzate non debbano essere sottovalutati.
I dati più recenti, se da una parte hanno aumentato i timori che l’economia mondiale non sia ancora nelle condizioni di reggere ad una normalizzazione della politica della Fed, dall’altra giocano a favore dell’obiettivo della forward guidance, che punta di fatto a limitare le aspettative di aumenti dei tassi d’interesse.

Sinora la forward guidance ha avuto buon esito nel limitare la crescita dei tassi, ma più sulla parte breve che su quella lunga. Rispetto al quantitative easing appare quindi meno efficace nel governare l’andamento dei tassi.
Il rischio è che la rimozione del quantitative easing porti ad aumenti dei tassi a lunga in tempi brevi, configurando quindi uno scenario rischioso per l’economia reale.
La stessa Fed ha d’altra parte indicato anche recentemente che il quadro economico appare esente da rischi d’inflazione e la recente riduzione della disoccupazione non è sufficiente per affermare che si sia in prossimità del materializzarsi di tensioni salariali. Sebbene la Fed avesse indicato un livello del tasso di disoccupazione del 6.5 per cento come valore di riferimento al di sotto del quale avviare la fase di risalita dei tassi d’interesse, vi sono adesso diverse opinioni – alcune riportate nelle stesse minute del Fomc – che tendono ad indicare come la disoccupazione compatibile con l’assenza di tensioni sui prezzi possa essere inferiore a tale valore. Si fa in particolare riferimento al fatto che la riduzione del tasso di disoccupazione negli ultimi due anni sia dipesa non solo dall’aumento dell’occupazione, ma anche da un andamento straordinariamente debole del tasso di partecipazione. Vi sono in sostanza molti scoraggiati che potrebbero però rientrare nel mercato se la ripresa continuerà, aumentando anche per costoro la probabilità di trovare un’occupazione.

A favore della forward guidance della Fed vi è poi anche l’andamento sotto controllo degli indicatori d’inflazione corrente e futura, e questo aiuta evidentemente a evitare che sui mercati si determinino le condizioni per un aumento dei tassi d’interesse a lungo termine La posizione della Bce è diversa da quella della Fed. Sia perché la ripresa dell’economia europea è più recente, sia perché sinora non si sono osservati effetti positivi dell’inversione del ciclo sul mercato del lavoro.
Circa i dati dell’economia reale, i risultati di fine 2013 sono stati leggermente migliori delle attese, con una variazione del Pil dello 0.3 per cento. I dati europei restano comunque nettamente inferiori a quelli delle altre maggiori economie (il Pil nel quarto trimestre 2013 è aumentato dello 0.8 per cento sia negli Usa che nel Regno Unito) ma si tratta comunque di un segnale di superamento della recessione. All’interno dell’area euro il dato italiano (+0.1 per cento) è abbastanza deludente e conferma la persistenza del divario di crescita rispetto agli altri maggiori Paesi (+0.3 per cento nel trimestre Francia e Spagna, +0.4 per cento la Germania).

Il ritardo della ripresa europea giustifica un lag temporale ampio fra la normalizzazione della politica monetaria Usa e quella europea.
Questo anche perché la recente evoluzione del quadro valutario internazionale comporta già un irrigidimento delle condizioni finanziarie.
Le svalutazioni dei Paesi emergenti e del Giappone pesano difatti sulla posizione competitiva dell’area euro.

Inoltre, un aspetto importante del quadro europeo è rappresentato dalla eccezionale diminuzione del tasso d’inflazione, ormai assestatosi su livelli inferiori rispetto ai target della Bce. Il timore di un cambiamento delle aspettative d’inflazione, tale da aprire al rischio che il sistema entri in una fase di defl azione, è uno dei fattori che condizionano la strategia della Bce. I valori attuali dell’inflazione europea sono difatti bassissimi e anche le previsioni correnti mostrano una dinamica dei prezzi largamente al di sotto della soglia del 2 per cento sia nel 2014 che nel 2015. Anche la tesi sostenuta più volte, della necessità di un divario d’inflazione fra i Paesi periferici e le economie del centro per migliorare la competitività dei primi, non appare sufficiente per evitare di contrastare la recente decelerazione dei prezzi, considerando che anche la stessa inflazione tedesca è scesa sotto il 2 per cento. Il paradosso della situazione della Bce è dunque che, nonostante l’avvio della ripresa anche nell’area euro, la possibilità di cambiamenti nella politica monetaria va più nella direzione espansiva che in quella della “normalizzazione” Il punto è che la Bce non è nella condizione di utilizzare ancora lo strumento dei tassi d’interesse, essendo questi oramai prossimi a zero. Di fatto, quindi, la discesa recente dell’inflazione ha già comportato un irrigidimento delle condizioni monetarie, dato che i tassi d’interesse reali sono aumentati, e in misura maggiore proprio nei Paesi della periferia dove l’inflazione è più bassa e la domanda risulta nello stesso tempo più debole.

Tassi d’interesse reali in aumento e rafforzamento del cambio stanno quindi già determinando un irrigidimento delle condizioni finanziare dell’area euro. Alla luce delle differenze nel quadro macro e nell’andamento dell’inflazione, si spiega d’altra parte la divergenza fra l’andamento dei tassi a lunga tedeschi e quelli Usa o britannici.
Qualora l’inflazione europea dovesse scendere ulteriormente, si aprirebbe la necessità di interventi con misure di stimolo quantitativo.
D’altra parte una polita di acquisti diretti di titoli di Stato da parte della Bce incontrerebbe con buona probabilità l’opposizione tedesca.
La Bce potrebbe muoversi verso misure volte a facilitare l’espansione del credito bancario, ad esempio utilizzando strumenti analoghi alle operazioni di finanziamento a lungo termine, le LTRO, già varate lo scorso anno. Diversi commentatori hanno comunque messo in evidenza come i problemi dal punto di vista della liquidità per le banche siano stati di fatto superati, tant’è che molte hanno anticipato la restituzione dei finanziamenti concessi tramite le LTRO. Il problema in realtà sarebbe in questa fase rappresentato dal fatto che la liquidità in circolazione fatica a trasformarsi in maggiore credito, tant’è che alcuni sollecitano iniziative di finanziamento diretto del sistema produttivo.

Difatti nella fase attuale alla maggiore capacità di raccolta da parte delle banche, si accompagna anche la peggiore percezione che queste hanno, specie nei Paesi della periferia riguardo alla rischiosità degli impieghi al settore privato. D’altra parte, dopo una lunga fase di difficoltà, l’impennata delle sofferenze induce le banche a valutare con estrema cautela il merito di credito della clientela. Le difficoltà di accesso al credito rientreranno quindi molto gradualmente, e questo tenderà a mantenere la ripresa sotto tono nel 2014.
Un altro aspetto da ricordare è che sinora il cambiamento nella struttura dei portafogli degli investitori internazionali, avviatosi con l’annuncio del tapering di giugno scorso, e intensificatasi recentemente, ha colpito soprattutto i Paesi emergenti, mentre non ha avuto conseguenze sul debito dei Paesi della periferia. Ma non va sottovalutato il rischio che un inasprimento delle tensioni sui mercati si possa tradurre in una nuova crisi del Paesi periferici. Non va dimenticato come i Paesi della periferia europea siano quelli la cui crescita appare più dipendente dalle esportazioni, e che quindi potrebbero risentire in misura maggiore delle svalutazioni da parte delle economie emergenti.

Infine, va fatto un richiamo alla recente decisione della Corte costituzionale tedesca.
Sebbene i mercati abbiano dato scarso peso a questo aspetto, la Corte di fatto ha espresso un parere sfavorevole rispetto alle OMT (Outright Monetary Transactions) ovvero lo schema di politica monetaria attraverso cui la Bce è riuscita ad imprimere una svolta alla crisi, e ha rinviato ad una decisione della Corte di Giustizia europea. Qualora questa dovesse ammettere le obiezioni della Corte costituzionale tedesca gli effetti sulla situazione europea sarebbero dirompenti, e i Paesi periferici ripiomberebbero rapidamente in una situazione di estrema gravità. Prima del pronunciamento della corte di Giustizia passerà oltre un anno, ma sin d’ora le basi della politica economica europea appaiono più fragili. D’altronde la posizione di quella che è pur sempre la maggiore economia dell’area euro è adesso ancor più esplicita, e non potrà che continuare a porre condizionamenti alle scelte della banca centrale.



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